Il fondatore di Telegram, Pavel Durov, arrestato la sera del 24 agosto a Parigi e trattenuto in stato di fermo per quattro giorni (la custodia cautelare poteva durare al massimo 96 ore dall’arresto), è stato rilasciato previo pagamento di una cauzione di ben 5 milioni di euro, cifra esorbitante e non giustificabile, e con l’obbligo di presentarsi in una stazione di polizia due volte alla settimana. Durov, nato in Russia e cittadino francese, non potrà lasciare la Francia, in quanto accusato di avere consentito presunti reati (dal traffico di droga alla pedopornografia) sull’app di messaggistica istantanea da lui inventata.
Insomma, quest’uomo è indagato per crimini che non ha commesso, crimini altrui, dei quali però dovrà rispondere, sebbene la responsabilità penale sia personale e sebbene sul web e su tutti i social network e le chat, non soltanto su quella fondata dal cittadino franco-russo, si consumino quotidianamente delitti di ogni genere. Ecco perché i 12 capi di imputazione mossi nei suoi riguardi sembrano pretestuosi. E pare che la vera colpa di Pavel sia quella di essere cittadino russo, oltre che quella di essere milionario. Secondo fonti ucraine, Durov avrebbe di recente incontrato il presidente Vladimir Putin. Sarà anche e soprattutto per questo che è finito nel mirino francese?
Perseguire e pure perseguitare una persona per la sua nazionalità però risulta essere diventato giusto in questo Occidente che pure si dice libero, civile e democratico. E in questi ultimi due anni e mezzo abbiamo assistito all’esclusione di atleti russi dalle competizioni, alla proibizione di suonare musica russa, di leggere autori russi. Persino Dostoevskij è stato vietato in alcune università, come la Bicocca di Milano, dove un corso su questo scrittore è stato cancellato nel marzo del 2022. Segno che, nella nostra bella Europa che non disdegna la censura, essere russi è una colpa persino da morti.