C’è una scelta che i medici, il quali hanno studiato e si sono formati con l’obiettivo di salvare la pelle agli altri, non vorrebbero mai compiere, ma che pure sono stati costretti a fare nel corso della prima ondata della pandemia, che ci ha colti tutti impreparati. Questa decisione è: in una condizione di stress del sistema sanitario e di carenza di posti nelle terapie intensive, a quali pazienti dare la priorità e sulla base di quale “ragionevole” criterio?

Esistono dei protocolli precisi sul punto, eppure applicare determinate regole produce un malessere psicologico ingente in chi, suo malgrado, è obbligato a decretare la morte di un soggetto il quale, quantunque abbia poche chance di sopravvivere, ha tutto il diritto di ricevere ogni cura possibile affinché non perisca. È accaduto in Italia, in Francia, in Svizzera, ovunque. E ora sta succedendo ancora, non sul nostro territorio, ma al di là dei confini.

Altissima è la pressione sulle strutture sanitarie svizzere e ciò comporta la necessità di selezionare i pazienti da destinare alle terapie intensive, ricorrendo al parametro indicativo dell’età: i soggetti più anziani hanno priorità bassa, ossia sono i primi ad essere scartati, esclusi, messi da parte. Quindi, in sostanza, se si beccano il coronavirus e subentrano complicazioni gravi, tanto peggio per loro: qualche volta sono condannati al trapasso e neppure si tenta di scongiurare tale esito infausto, bensì si ricorre a cure palliative, attendendo impotenti lo spegnimento dei malati. È una tragedia altresì per i dottori che li assistono e che, nonostante gli sforzi profusi, devono lasciarli andare poiché non dispongono di una macchina libera a cui attaccarli.

Una riflessione a questo punto è doverosa: se la prima ondata ci ha travolti come uno tsunami, mettendoci in ginocchio e costringendoci a un lockdown planetario, come è potuto avvenire che questa seconda ondata, prevista da governi ed esperti, presenti ancora il medesimo conto in termini di problematiche e vittime? Per quale ragione in questi mesi di respiro non si è provveduto a potenziare posti letto, terapie intensive, apparecchiature, personale medico e infermieristico? Quest’ultimo ovviamente non si forma nel giro di qualche settimana, ma la penuria di camici bianchi in corsia avrebbe potuto essere colmata magari richiamando i professionisti andati in pensione di recente.

In uno Stato civile non si dovrebbe operare una distinzione tra pazienti che possono riprendersi dal morbo e pazienti ormai, tutto sommato, quasi spacciati, tra cittadini di serie A e cittadini di serie B. La vita ha sempre valore, che essa sia di un giovanotto o di un nonno, nonno che per di più ha pagato le tasse per una esistenza intera e che ha pieno diritto all’assistenza.

La responsabilità di codeste inefficienze sono della politica. I soldi impiegati nella sanità a fini precauzionali ci risultano essere quasi uno spreco e non una idea intelligente o un ottimo modo di investire. Prova ne è la polemica che ha suscitato l’ospedale realizzato in Fiera a Milano. Il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana in questi mesi è stato ferocemente attaccato da politici e stampa per avere costruito una struttura costata milioni e milioni di euro eppure mai adoperata. Da qualche giorno quell’ospedale, edificato grazie anche alle donazioni dei generosi lettori di Libero, è stato attivato. Insomma, la clinica non soltanto si è rivelata utile, ma addirittura fondamentale: è lì che possiamo accogliere pure i malati giunti dalla Campania senza doverli trasferire all’estero, dove peraltro non sembra che si stia meglio che in Italia. Invece di puntare il dito contro Fontana e Lombardia, le altre Regioni avrebbero dovuto seguirne l’esempio, poiché contro il corona non abbiamo ancora un vaccino e l’unica maniera per contenere il numero dei morti non consiste nel rinchiudere la popolazione intera in casa, bensì nell’essere muniti di posti letto, strumentazioni e operatori sanitari, ai quali non si può e non si deve chiedere di lasciare crepare chi forse forse non ce la fa.

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