Altissime dune di sabbia bianca, le più grandi in Europa, che a tratti precipitano e a tratti conducono verso un mare cristallino come quello dei paradisi tropicali. E tutto intorno una vegetazione bassa e cespugliosa, ma soprattutto tanta, tantissima pietra, rossa come lava, arrugginita. Non è affatto difficile scorgere ai lati delle strade che irrompono tra i boschi e che in pochi minuti portano fino alle dune e al mare, o sulla sabbia bianca, o ai margini di ruscelli dalle acque rosse, maestosi cervi o frettolosi e piccoli cinghiali, numerosissimi da queste parti.
Non si tratta di un piccolo mondo magico, frutto della fantasia di un bambino. Siamo in Italia, a Piscinas, a pochi chilometri da Cagliari, area facente parte del patrimonio dell’Unesco, un tempo miniera più prospera in Europa, eppure oggi località semi sconosciuta da noi italiani, meta soprattutto del turismo tedesco. Sembra un immenso paese incantato, quasi fantasma. Sì, fa quasi paura, sicuramente suggestione, Piscinas di notte. Le vecchie case dei minatori adesso diroccate, ma un tempo colme di vite, sembrano ululare la loro solitudine, gridare la loro nostalgia, o piangere sommessamente i dolori vissuti, che superano di gran lunga le gioie di una vita, quella del minatore, più dura della pietra scavata a mani nude, e troppo ingiusta. Una vita trascorsa più al buio che alla luce del sole, troppo breve, perché la roccia, quando la svisceri, soffre e dà i suoi tesori, ma poi non perdona. Uccide con la sua polvere sottile, occlude i polmoni, soffoca, fa tossire sangue.
Muoiono così i giovani minatori di Piscinas e Montevecchio, di silicosi. E le loro donne e i loro figli, ancora bambini, prendono il loro posto. Anche per loro questo destino.
Passeggiando tra i vari pozzi di estrazione, tra le varie cave, tra le case dei ricchi “padroni” e quelle dei miseri operai, sembra un tempo lontanissimo quello in cui Piscinas e Montevecchio erano popolate da ben due mila e cinquecento famiglie di lavoratori. Eppure, tra alti e bassi, la miniera, attiva già dalla seconda metà dell’Ottocento, ha resistito, trascorsa la sua epoca dorata, fino al 1991, anno in cui è stata ufficialmente chiusa e Piscinas convertita in una località turistica, frequentata abitualmente da tedeschi e svizzeri per pochi mesi durante l’anno.
Non si capisce bene se la società che gestiva la miniera abbia deciso di chiudere perché ormai tutte le risorse del sottosuolo erano state depredate e Piscinas poteva essere adesso messa da parte come un oggetto usato ed usurato, o perché i costi della manodopera erano lievitati, avendo i minatori acquisito attraverso l’istruzione ed i mezzi di informazione una maggiore consapevolezza dei loro diritti e non essendo più distosti a sottostare a quel bieco sfruttamento, che andava ad ingrossare solo le tasche degli altezzosi padroni.
Questi ultimi, chiusi nelle loro lussuose dimore, nei loro abiti eleganti, cosparsi di gioielli, si sentivano aristocraticamente superiori, migliori, rispetto al minatore scalzo e affaticato che trascinava da solo pesanti e giganteschi carrelli carichi di pietre grezze.
Egli veniva spesso schernito, deriso ed umiliato persino dalle mogli dei “padroni”. Così hanno narrato in semplici versi colmi di umanità vecchi minatori.
Due mondi paralleli, conviventi l’uno accanto all’altro, impenetrabili l’uno per l’altro. Da un lato, il fasto abbondante e chiassoso delle feste organizzate nei saloni dei “padroni”; dall’altro, il silenzio spoglio delle case dei minatori, interrotto a tratti da una tosse terribile e angosciante che, come un tuono annuncia il temporale, presagiva che la morte era ormai lì, puntuale, dietro l’uscio. Non si può eliminare l’ingiustizia dal mondo, eppure non si può smettere di combatterla, come hanno fatto i minatori con le loro lotte per l’affermazione dei propri diritti. Qualsiasi sistema fondato su un’ingiustizia troppo marcata e stridente è destinato ad esplodere, a morire, a spegnersi come le ultime luci di Piscinas.
Articolo pubblicato su Libero il primo marzo del 2017