Ricorderemo il Natale 2020 non soltanto per il folle Dpcm che, tra divieto di spostamento e coprifuoco, ci impedisce di fatto di stare con gli affetti più stretti nel giorno universalmente dedicato alla famiglia e all’amore, imprigionandoci in un isolamento che ha contraddistinto tutto l’anno in corso, che tuttora ci affligge e che si amplificherà da qui al 31 dicembre, bensì pure per il presepio pandemicamente corretto.
È stato allestito all’interno del Duomo di Torino e in esso vi figurano Giuseppe e Maria con naso e bocca diligentemente coperti dal dispositivo di protezione individuale, forse perché timorosi di essere multati o di infettarsi in una Betlemme carente di terapie intensive. Tuttavia i genitori di Gesù non sono gli unici personaggi ad essere stati imbavagliati. Tutte le statuine, dai pastori agli zampognari, sono munite di mascherina per proteggersi dal coronavirus. Un tacito eppure esplicito invito, forse, ad adoperare tale strumento profilattico, raccomandazione rivolta dalla Madonna in persona allo spettatore inerme, il quale non ha più scampo: ogni cosa che lo circonda gli ricorda che il Covid-19 è dietro l’angolo, pronto ad aggredirlo, in qualsiasi momento. Ed egli, da buon cristiano, deve seguire le direttive non di Dio, ma del premier assoluto Giuseppe Conte.
Persino l’atmosfera natalizia è inquinata da questo pesantissimo odore di disinfettante, che soffoca il consueto profumo di abete, mandarino, cannella, torrone che caratterizza la festa più importante e attesa dell’anno. Ci prepariamo non a vivere, bensì a superare quello che si annuncia essere il Natale più desolato che abbiamo mai attraversato, poiché se ci è fatto divieto di stare in compagnia dei nostri cari, di ritrovarci, di riunirci intorno ad una tavola, quantunque povera, come prevede la tradizione, di scambiarci gesti di tenerezza, di prendere parte alla magia che distingue questo giorno sui 365, allora che Natale sarà? Un Natale a luci spente. Fuori e dentro di noi.
Hanno guastato addirittura il presepio, che è vittima delle schizofreniche mode del momento. In questi ultimi anni si è imposto quello politicamente corretto che prevedeva che Giuseppe, Maria e il Bambin Gesù fossero neri e islamici. Come dimenticare quello allestito in una chiesa di Potenza, dove la Vergine indossava il burqa e suo marito era Mustafà? Il presepe, che costituisce la rappresentazione più mistica della festività natalizia e che perciò andrebbe salvaguardato, patisce da lustri duri attacchi da parte dei fanatici del globalismo e dei maniaci del politically correct. Lo si vorrebbe abolire dai luoghi pubblici in quanto ritenuto offensivo nei confronti di chi aderisce ad un’altra fede, dell’extracomunitario, e poco importa che qui siamo in Europa e che le nostre radici siano cristiane. Ecco la ragione per la quale difendere il presepio equivale al difendere la nostra identità. E ciascuna famiglia dovrebbe riscoprire il piacere di dedicare un piccolo angolo della propria abitazione alla riproduzione scenica della nascita di Gesù, come si usava una volta.
“Non è facile fare un presepio”, esordiva il giornalista Dino Buzzati in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 19 novembre del 1934. “In alcune case questa operazione natalizia si ripete da parecchie generazioni secondo norme e modalità immutabili che sembrerebbe insania abrogare”, continua lo scrittore esaltando la bellezza dei “presepi di fortuna, improvvisati da gente modesta”, poiché “il risultato dipende da elementi imponderabili. Spesso da mezzi scarsi e miseri nasce un piccolo capolavoro”. E, infine, il consiglio: “Ad ogni modo non insistete, se il lavoro non riesce come avreste voluto. La colpa non è vostra e non ha rimedio: avete perso la semplicità di un tempo”.