Il livello di democraticità di un Paese è direttamente proporzionale alla qualità del funzionamento del suo sistema penitenziario, che mira alla rieducazione e al reinserimento sociale del detenuto.

I gulag staliniani, quelle turche, quelle cinesi, sono esempi estremi di carceri tipiche di sistemi politici antidemocratici, dove la detenzione non ha una finalità rieducativa, bensì solo punitiva. Ma esistono anche carceri inumane in Paesi democratici. Un esempio è rappresentato dal carcere statunitense di Guantanamo. Eppure non ci serve andare così lontano, perché un sistema simile sopravvive proprio in casa nostra. Si tratta del regime penitenziario previsto dall’articolo 41-bis e chiamato “carcere duro”, che comporta la sospensione delle normali regole di trattamento dei detenuti (anche quelli in attesa di giudizio) per reati di criminalità organizzata.

Già nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti (C.P.T.) ha preso atto che i detenuti sottoposti al trattamento di rigore subiscono un isolamento che può provocare effetti dannosi ed irreversibili sulle loro facoltà sociali e mentali, provocando disturbi d’ansia e di personalità, e ha avanzato il sospetto che tale regime sia stato introdotto per provocare la dissociazione o la collaborazione dei detenuti mediante una pressione psicologica illegittima. Nel 2000 il C.P.T. ha sollevato il dubbio sulla legittimità di un sistema in origine concepito come temporaneo, ma che ha finito con il diventare permanente. Inoltre, il Comitato ha rilevato un continuo inasprimento del regime speciale, che rende impossibile l’attuazione di un programma rieducativo.

Se nelle carceri italiane, salvo qualche eccezione, le condizioni di vita dei detenuti sono rese difficili da diverse problematiche, tra cui il sovraffollamento, quanto è dura la vita di coloro che si trovano in un regime che annulla i diritti del detenuto?

Questa domanda non se la pone nessuno. Perché di 41-bis non si parla. Anzi, ci siamo persino dimenticati che esso esiste.

Noi di Libero vogliamo raccontarvelo per la prima volta e dall’interno, ossia dal punto di vista di chi il carcere duro l’ha vissuto.

Fulvio Rizzo, 50 anni, è stato sottoposto al regime speciale dal 1992 fino al 2014. Oggi è un uomo libero, che ha saldato il suo debito con la società, pagando onerosi interessi.

Cos’è il 41 bis?

“Il carcere duro è isolamento nell’isolamento, qualcosa che ti rende meno di niente e che ti uccide ogni giorno, deteriorandoti e spogliandoti della tua dignità di essere umano”.

Oltre all’isolamento perenne, avvengono violenze?

“Dal ’92 al ’97, che ricordo come gli anni più terribili, ci sono state violenze fisiche che nessuno ha mai avuto il coraggio di raccontare. Le grida di aiuto e di dolore non riescono ad espugnare le mura del carcere. Vengono soffocate”.

Lei ha mai subito torture?

“Io come tutti gli altri. Lì si è tutti uguali. Siamo tutti numeri zero, senza volto, senza nome, senza vita. Di notte e di giorno poteva accadere all’improvviso di essere percossi da guardie incappucciate, spesso ubriache. Entravano in cella ed iniziavano a pestarti: calci, pugni, offese, sputi, persino sulle foto delle nostre donne. Sentivo il rumore dei loro pesanti passi nel corridoio. Si viveva nel terrore perenne. Certi giorni facevano la cosiddetta “saponata” nel corridoio e ti ordinavano di uscire dalla cella, scivolare era inevitabile e a quel punto iniziavano le percosse, anche sugli anziani o i malati”.

Per quale motivo vi picchiavano?

“Non c’era mai un motivo. È difficile da spiegare a chi questa realtà non l’ha vissuta: la violenza è parte integrante di quel sistema, un’abitudine. Ma non per questo fa meno male”.

Cosa fa tanto male?

“Più delle botte brucia quel senso di umiliazione che queste provocano, l’essere alla mercé di un altro essere umano che in quel momento si sente forte, superiore, migliore di te”.

Forse fa male anche l’essere presi a botte e non sapere neanche il perché…

“La violenza è sempre priva di senso. In questo caso, lo è di più, perché manca anche un significato logico-consequenziale. Puoi trarne solo che sei picchiato perché non vali niente”.

Di certo non si può sostenere che questa violenza risponda ad un fine rieducativo…

“Assolutamente no. Un cazzotto nell’occhio non ha mai reso migliore nessuno. Una carezza sì”.

Chi muore in carcere muore di carcere?

“Sì, di carcere si muore. I tentativi di suicidio sono quasi quotidiani, al pari delle morti sospette. Ma soprattutto nel carcere duro ci si ammala tanto, spesso di tumore. Anche io ho avuto il cancro. Vorrei capire perché ci sia un’incidenza tanto alta di certe patologie. Forse è la qualità della vita che porta persino il proprio organismo ad autodistruggersi. In fondo, morire è l’unico modo per evadere da quell’inferno. Il detenuto trascorre tutto il giorno nella sua minuscola cella, da solo, l’ora d’aria viene consumata in un cortiletto dove continui a girare intorno a te stesso per muoverti, stando sempre fermo. Spesso persino lì il cielo è coperto”.

Sembra quasi un modo per fare impazzire il detenuto…

“E quale altro scopo potrebbe esserci?”.

Cosa non potrà dimenticare mai?

“Le grida dei miei compagni che venivano picchiati; il caldo soffocante in estate, quando la cella diventava un forno di metallo e cemento; il gelo e l’umidità che mi penetravano le ossa in inverno. La tortura delle ispezioni continue, almeno due volte al giorno mi veniva ordinato di spogliarmi e di fare le flessioni, così tramite uno specchio venivo controllato ovunque”.

In carcere lavorano anche persone perbene. Tu ne hai conosciute?

“Per fortuna sì. Esistono due tipi di guardie penitenziarie o di direttori. Ci sono quelli portati al trattamento e quelli portati al trattenimento. I primi credono che il carcere debba rieducare il soggetto riconsegnandolo alla società; i secondi, credono che il carcere sia un luogo di espiazione, una sorta di girone dell’inferno in cui sfogare il proprio sadismo”.

Come è sopravvissuto lei a tutto questo?

“Io ce l’ho fatta perché la mia famiglia mi ha sempre sostenuto. Mia figlia è stata il mio faro, mi ha insegnato a scegliermi, a non lasciarmi andare”.

Come è stato il ritorno nel mondo esterno?

“Ti devi innanzitutto riabituare ai colori. In carcere è tutto grigio. Rivedere l’azzurro del cielo è un’emozione forte, resti quasi accecato dalla luce. Uscire è come vedere il mondo per la prima volta. Quando ebbi il primo permesso di 4 ore, mi portarono in gelateria e restai stupito davanti a tutti quei gusti colorati di gelato. Non ebbi il coraggio di sceglierli e chiesi quelli che preferivo da ragazzo. Durante la detenzione ho studiato, perché l’emancipazione culturale equivale ad un’emancipazione dal sistema deviante, quindi ci rende liberi. Il pregiudizio da parte della gente lo subisco ancora e soffro il fatto di non potere esercitare mai più il mio diritto di voto. Ma tante persone mi ha dato fiducia. Ho lavorato prima come volontario, prendendomi cura di 22 anziani. Oggi gestisco un albergo e un ristorante a Lecce, scrivo opere teatrali e mi sto dedicando alla stesura di un libro con lo scrittore Willy Pasini, nel tentativo di liberarmi da quel dolore che ancora mi porto dentro”.

Quindi è possibile tornare a vivere dopo il 41-bis?

“Sì, grazie a coloro che mi hanno guardato dall’alto in basso non per disprezzarmi, bensì per tendermi una mano e mettermi alla pari con loro. Se dai fiducia al detenuto, questo non la tradisce. Se gliela neghi, è facile che egli diventi un criminale incallito. Se non avessi ricevuto fiducia, non sarei potuto andare avanti. Lo Stato me l’ha negata, convinto che per dimostrare la sua forza debba imprigionare e non redimere. Ma così dimostra solo debolezza”.

Cosa hai imparato in carcere?

“Ho riflettuto sul fatto che la parola carcere è l’anagramma di “cercare”. Nella mia cella ho cercato me stesso. Ed è una ricerca che tuttora mi impegna. Per essere un uomo sempre migliore”.

In un Paese democratico le carceri non dovrebbero essere luoghi in cui si sceglie di morire, ma luoghi in cui si sceglie di rinascere sulla base di valori più positivi. Uno Stato che chieda il rispetto della legalità utilizzando la violenza e calpestando la dignità dell’essere umano, non è credibile. Esso non potrà mai ricevere ciò che non dà.

Pubblicato su Libero dell’11 giugno 2017

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