Cari lettori,

desidero condividere con voi alcune memorie di mio nonno, morto una ventina di anni fa. Nonno Salvatore, appena diciottenne, lasciò il suo paese natale, Rotondella, in Basilicata, arruolandosi come volontario “per amor patrio”, così ci diceva, e fu uno dei pochissimi sopravvissuti tornati in Italia dal fronte russo.

Per tutta la vita egli è stato perseguitato dal ricordo dei suoi compagni, morti congelati, ammazzati o suicidi nella steppa, davanti ai suoi occhi impotenti e disperati. Per sopravvivere al gelo, privi di viveri e di equipaggiamento idoneo, i soldati italiani furono costretti, per ordine del medico dell’esercito, a mangiare carne umana: il corpo di un uomo di nazionalità mongola, appena deceduto.

Del nonno ricordo lo sguardo commosso, quando stava seduto per ore immerso nei suoi pensieri, in silenzio, e anche l’ironia. Ho sempre pensato che fu la sua capacità di sorridere e di ridere di ogni cosa l’arma che gli permise di resistere alle atrocità vissute.

Dagli appunti di Salvatore Pentivolpe.

“Cessate le ostilità con la Francia, dopo breve tempo ho raggiunto la Russia all’interno della divisione Ravenna. Ho avuto paura di quella terra: la sconfinata superficie, le steppe sterminate. Il nulla. Mi sono domandato: “Qui bisogna fare la guerra contro chi? I confini italiani sono troppo lontani per sentire l’amore di Patria, per combattere una guerra giusta in questi deserti infiniti”. Il silenzio era interrotto solo da qualche rombo di cannone sul fronte, si avanzava con troppa facilità, i tedeschi non incontravano alcuna resistenza. Era un inganno. Era una trappola. I russi attendevano e confidavano sempre nel loro generalissimo “L’Inverno”, solo allora scoppiava un vero inferno di freddo e di fuoco che portava con sé la distruzione delle armate italiane e tedesche. Alle porte dell’inverno si scatenarono accanite battaglie da parte dei russi, che intimavano a tutti noi la resa, dicendo: “Soldati italiani, soldati di ferro, armi di legno e ufficiali a pagamento, arrendetevi! Arrendetevi! Passate dalle nostre file, i nostri comandi vi assicurano la vita”.

Le divisioni tedesche, italiane, rumene ed ungheresi hanno dovuto fronteggiare le grandi forze corazzate dell’armata rossa comandata dal famoso loro generalissimo “Il Freddo”.

Durante una tregua di riposo la mia compagnia venne accantonata in un grande capannone adibito a granaio dai russi, il freddo era insopportabile, eravamo male equipaggiati, i pidocchi addosso non ci davano tregua. Durante la prima notte trascorsa nel granaio, per la grande stanchezza avevamo dimenticato persino dove eravamo, a causa del sonno non sentivamo nulla. Mentre dormivamo, siamo stati invasi da migliaia di topi affamati, ci hanno rosicchiato capelli, barba, baffi, unghie dei piedi, delle mani, mangiavano dappertutto.

Nel sonno sentivamo come delle piacevoli e amorevoli carezze sul viso. Si sorrideva, nel sonno. Sognavo il focolare, mia madre curva davanti al fuoco, la luce calda. Invece erano topi famelici. Si mangiavano ratti nel caffè. Ratti morti anche nel pane. I cucinieri che distribuivano le pagnotte, svuotato per metà il sacco, lo chiudevano e lo sbattevano a destra e a sinistra contro il muro, così parte dei topi venivano massacrati assieme ai pani. Coloro ai quali toccavano le pagnotte restanti mangiavano pane inzuppato di sangue di topo.

Ci siamo recati nel villaggio vicino al nostro capannone, ogni casa aveva 6, 7, 8 gatti grassi come capretti, ben nutriti di topi. I russi hanno asserito che la zona è infestata dai questi animali, escono anche dalla terra nelle campagne, figuriamoci quanti vivono nel granaio.

I soldati erano anneriti dal grasso anticongelante. Il loro volto era irriconoscibile. Avevano perso la loro identità diventando parte di un nulla buio, una macchia sempre più ristretta nel bianco smisurato. La loro testa era avvolta di stracci, senza scarpe, i loro piedi venivano rivestiti di brandelli di tessuto legati con corde. Non parlavano più. Continuavano il cammino della morte silenziosamente. Il numero di essi diminuiva sempre più, perché sfiniti dal freddo, dalla stanchezza, dalla fame. Si accasciavano per terra, arresi, e poi non si alzavano più. I cadaveri assiderati sembravano cumuli di spazzatura buttati sulla neve. Le nostre armi non servivano più a nulla: non potevano salvarci, non potevano farci vivere. Qualcuno si sparava per mettere finalmente fine a tanta sofferenza. Le armi venivano abbandonate lungo il cammino per alleggerire il carico sulle nostre spalle. L’armata rossa cannoneggiava ogni tanto a distanza, per logorare ulteriormente la speranza. I russi sapevano che il resto delle truppe in ritirata stava morendo, né pensavano minimamente di fare di noi sacche di prigionieri per non avere il fastidio di sfamarci e di coprirci. Pensavano che il freddo ci avrebbe sistemati gradatamente. I pochi superstiti dopo tante tragedie, in zone al di fuori del territorio sovietico, salirono su un treno merci italiano che ci attendeva per portarci al campo contumaciale di Udine per essere sottoposti alla disinfestazione e alle cure mediche. Si concluse così la mia storia di avventura militare in terra di Russia. Che i giovani sappiano, mai più tragedie simili, mai più simili guerre”.

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