Matteo ha 28 anni, dipende dall’insulina da quando era bambino, se la inietta da solo con una piccola siringa quattro volte al giorno. È magrissimo e bianco come un lenzuolo. Sebbene debba seguire una alimentazione bilanciata al fine di tenere sotto controllo il diabete giovanile, che se trascurato conduce alla cecità, all’amputazione degli arti e al coma, il ragazzo vive per strada da due mesi insieme alla sua compagna, che se ne sta rannicchiata in un angolo, con i piedi nudi posti su uno straccio. Ha la carnagione olivastra, lunghi capelli neri e un sorriso enigmatico stampato sulle labbra, quasi beffardo verso la vita.
Tutto intorno a loro comunica decrepitezza. La via desolata, illuminata dal freddo neon, quelle cataste di uomini e donne mescolati a luride coperte, cartoni e bagagli, che si susseguono uno dietro l’altro, come dormitori a cielo aperto di un contingente di soldati in missione. La dentatura della fanciulla, che assomiglia a quella di una vecchia, gli abiti logori e sporchi, l’odore dolciastro e insopportabile che aleggia pesante nell’aria attaccaticcia.
La donna ci chiede due euro, così domani mattina potrà comprare qualcosa da mettere sotto i denti, quelli che le restano. Il compagno intanto sistema quel poco che possiede e che tanto gli è caro nello zaino che custodisce sempre accanto. Ci viene incontro un uomo barbuto, con una mascherina nera, che non è mai stata lavata, tenuta abbassata sul mento. Ha voglia di parlare. Ci racconta di chiamarsi Sergio, di essere pugliese e di dormire sul marciapiede da qualche mese. “Sono solo al mondo, ho perso tutti i parenti, non ho nulla”, esordisce.
Siamo sotto i portici che stanno davanti alla stazione Garibaldi di Milano. Le persone che ogni notte si rifugiano qui sono decine e più o meno si conoscono tutte. Di andare nel dormitorio non ci pensano proprio. Quando gli facciamo presente che potrebbero riposare al coperto nelle strutture del Comune, scoppiano a ridere. È quella risata amara che spesso abbonda nella bocca dei disperati. “Al dormitorio non si può stare”, ci spiega il tizio con la barba. “Gli africani sono capaci di rubarti tutto. Qui siamo più tranquilli”, prosegue.
Il coronavirus ha fatto in Italia oltre 35 mila morti. Ma vittime collaterali dell’epidemia che ha sconvolto le nostre esistenze, stravolgendo usi e abitudini, sono pure i 700 mila individui (dati Istat) che si sono ritrovati dall’oggi al domani senza occupazione (negli USA invece 30 milioni di disoccupati), quindi senza entrate, molti dei quali, non potendo contare sull’aiuto di familiari, hanno perduto pure il tetto e girovagano nelle città deserte alla stregua di spettri e senza un soldo in tasca.
Come Davide, che però una automobile almeno l’aveva. L’altra sera faceva troppo caldo, così ha deciso di stendersi sul pavimento insieme agli altri. All’alba si è accorto che uno dei finestrini della sua vettura era stato sfondato e i ladri gli avevano portato via tutto ciò che aveva ammassato nell’abitacolo. O come Simonetta, una cinquantacinquenne che ogni dì intorno alle 19 allestisce la sua tendina azzurra davanti ad una vetrina di corso Matteotti, nel cuore del capoluogo lombardo, tra i palazzi ed i negozi più eleganti della metropoli, che rimangono serrati, inaccessibili, proibiti e impossibili a questa donnina esile, che se ne va in giro trascinandosi due grosse valigie nere.
Prima del lockdown la signora lavorava come collaboratrice domestica. Nessuno l’ha più cercata per riceverne i servigi e ad un certo punto Simonetta ha dovuto abbandonare pure quel tugurio umido in cui abitava, situato nella estrema periferia di Milano. Non ne fa un dramma, o almeno così sembra. La sua rassegnazione è quasi serafica. A darle noia semmai è quel tedesco che campeggia ad una trentina di metri dalla sua postazione e che tiene il volume del televisore troppo alto, turbandole i sogni, unica occasione di evasione.
L’uomo, biondissimo e florido, senza dubbio è ben attrezzato. La sua tenda è più grande ed egli gode di maggiori confort. Ci narra di essere in attesa di una chiamata di lavoro, che spera giunga a settembre. Lavorava, per conto di un’azienda del suo Paese, come elettricista per un istituto di credito italiano. Pure lui da marzo, all’improvviso, ha smesso suo malgrado di sgobbare. Ammette che il tipo di vita che sta conducendo, tutto sommato, non gli è insopportabile e che considera questa come una fase transitoria: i soldi arriveranno. Prima o dopo.
Incrociamo altra gente, soggetti di entrambi i sessi e di tutte le età, molti dei quali non gradiscono interloquire. C’è chi se ne sta disteso a leggere un libro, chi con cura meticolosa costruisce il suo misero nido e non intende essere interrotto, chi sonnecchia davanti ad una serranda abbassata da chissà quanto tempo, o in un lugubre angolo, come quello da cui spuntano due piedi di donna che indossano un paio di tacchi, sotto ad un portone, in un tetro anfratto di una città che non è mai stata tanto vuota, bella e spaventosa.