Senza affermarlo al fine di non scadere in generaliste quanto banali spiegazioni, ne avevamo nutrito il sospetto, cementatosi in queste ultime bollenti settimane di agosto: i politici sono imbecilli. Senza offesa, eh, ad attestarlo è la scienza.
Dacher Keltner, docente alla UC Berkeley ha impiegato anni di studi matti e disperati ma infine è giunto alla conclusione che i potenti agiscono come se avessero patito un grave trauma al cervello. Essi adottano un comportamento impulsivo, talvolta del tutto irrazionale, non valutano le conseguenze delle loro azioni nonché i pericoli che ne potrebbero scaturire.
Come se non bastasse, coloro che raggiungono il potere diventano piano piano incapaci di vestire i panni altrui, di immedesimarsi nel prossimo, di comprendere e percepire pensieri, emozioni e bisogni che non sono propri. Insomma, l’autorità influenza la condotta e la psicologia di chi la detiene inibendo facoltà mentali fondamentali. In poche parole, essa fa ammalare il cervello. Keltner definisce codesta situazione “paradosso del potere”.
Allorché un individuo chicchessia acquisisce influenza, diventa oltre che coglione una sorta di stronzo, smarrendo le caratteristiche vincenti che gli hanno permesso di aggiudicarsi l’attuale posizione. Ed ecco che ci si trasforma in soggetti arroganti, freddi, incoerenti, talvolta insolenti ed insensibili.
Da qui la caduta, poiché codesta metamorfosi, soprattutto in politica, minaccia la tenuta del potere stesso e si traduce in perdita di consenso, cioè si passa repentinamente dallo stare nel cuore della gente allo stare un po’ più in basso. Sullo stomaco, mettiamola così. E ciò chiarisce il motivo per cui nessun leader duri mai troppo a lungo. Il tempo di sopravvivenza di un gatto sulla tangenziale.
Di casi che possono corroborare tali teorie scientifiche ne abbiamo a iosa. Basti pensare a Matteo Renzi, ex segretario del Pd ed ex presidente del Consiglio. Grazie ad una favorevole congiuntura temporale, egli aveva in un primo momento goduto di un ampio e generalizzato plauso, a sinistra ma anche a destra, ed era stato considerato da tutti come l’uomo nuovo, che avrebbe rimesso le cose al loro posto.
Insomma, piaceva a chiunque. Poi Renzi, il quale era animato da un’eccessiva fiducia in se stesso che scantonava nella presunzione più sfacciata, si è convinto di potere fare a meno dei membri storici del Pd, colonne portanti del partito, relegandoli ai margini, estromettendoli, privandoli di qualsiasi ruolo, certo di essere egli il leader assoluto, indiscusso e indiscutibile della sua parte politica. Era così sicuro di sé che arrivò ad affermare che sarebbe scomparso dalla scena se il referendum costituzionale avesse bocciato la sua riforma. Mai e poi mai avrebbe immaginato che gli italiani ne avessero già abbastanza di lui e che in quella occasione avrebbero colto la palla al balzo per levarselo dalla vista e dalle scatole.
Purtroppo Matteo non si ritirò a vita privata, anzi mantenne il ruolo di segretario del Pd ancora a lungo e tuttora da dietro le quinte si ostina, pur essendo stato declassato, a voler gestire la situazione. Il suo errore? Quello che gli antichi greci chiamavano “hýbris”, parola che indica il peccato di chi eccede in superbia, orgoglio e prevaricazione. La tracotanza ha segnato la fine del fiorentino, facendolo precipitare nel dimenticatoio dal quale egli tenta in tutti i modi di riemergere.
Gli psicologi chiamano questo delirio “sindrome di hubris”. Si tratta di un disordine della personalità descritto nel 2009 da Lord David Owen e Jonathan Davidson sulla rivista scientifica Brain a Journal of Neurology. Ad esserne affetti sono individui che rivestono ruoli di potere nelle istituzioni, nelle aziende, nelle banche, il cui carisma manifesta un lato talvolta oscuro, contrassegnato da rifiuto di ascoltare e di prendere consigli, perdita di contatto con la realtà, orgoglio esasperato, disprezzo per gli altri ed eccesso di fiducia in se stessi.
Arginare questa più che probabile deriva della autorevolezza (e della propria psiche) è possibile. Come? Facendo bagni di umiltà. Maneggiando con cura il potere senza esserne maneggiati. Non esiste altra via se non questa al fine di scongiurare il rischio di inciampare nell’effetto paradosso, che condanna il potente non solo a schiacciare gli altri ma pure ad essere schiacciato dal suo medesimo potere.
In tanti si chiedono come abbia potuto Matteo Salvini, all’apice del suo fulgore, allorché i sondaggi lo davano prossimo al 40%, dare il via ad una crisi di governo che lo ha portato nel giro di qualche giorno all’essere estromesso dall’esecutivo. In base alle ricerche di Keltner sussiste un motivo semplice: Salvini, il quale ha sempre avuto i piedi per terra, stavolta ha sottovalutato le ripercussioni delle sue scelte, ha agito in maniera irrazionale, ha dato per scontato l’epilogo che egli desiderava ed aveva previsto, ossia che si andasse subito alle elezioni.
Che il potere rincretinisca è certo. Altrimenti come potremmo spiegarci l’accordo di governo tra M5s e Pd? Due partiti che si sono sempre odiati e combattuti, fino ad ieri, e che oggi convolano a nozze infelici senza considerare che questo sodalizio non avrà mai la benedizione dell’elettorato, che appena ne avrà l’opportunità li farà fuori. Luigi Di Maio, Nicola Zingaretti, Giuseppe Conte, l’avvocato del popolo che ora cura gli interessi di Davide Casaleggio, sono la prova provata che il potere logora sì, ma chi ce l’ha.
Articolo pubblicato il 2 settembre 2019 su Libero