Si è conquistato un bel primato il militare che a Milano è finito indagato per un reato che però di fatto ancora non esiste, ossia quello di catcalling, termine inglese molto in voga ultimamente il quale indica quell’uso tipicamente maschile di fischiare o rivolgere a soggetti di sesso femminile, per strada, complimenti talvolta fin troppo coloriti e considerati per questo “sessisti”. Il soldato, infatti, è il primo uomo in Italia messo sotto indagine per codesta tipologia di condotta. A denunciarlo lo scorso aprile una studentessa, la quale non ha gradito l’attenzione del tizio in questione. Sarà il dipartimento “Tutela fasce deboli” della procura meneghina a fare luce sul comportamento del militare allo scopo di chiarire se, effettivamente, il suo atteggiamento sia stato insistente, vessatorio, eccessivo e invadente fino al punto di limitare la libertà della fanciulla e recarle disagio.
Infatti, è bene puntualizzare che affinché si configuri il reato di disturbo, nel quale potrebbe essere inquadrato il fenomeno del catcalling, non è sufficiente un solo apprezzamento, quantunque volgare, o addirittura osceno, bensì è indispensabile ricorra un elemento determinante, ovvero la petulanza. Insomma, dovrà essere dimostrato che il soldato abbia ostinatamente importunato la giovane, intromettendosi in maniera pressante e continua nella di lei personale sfera di quiete, con apprezzamenti sgraditi, ai limiti della molestia. In base all’art.660 del codice penale, intitolato “molestia o disturbo alle persone”, “chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516”. Dunque, l’indagato rischia persino di essere arrestato.
Con questi precedenti si guarderanno bene gli uomini dall’esternare ad alta voce lodi e lusinghe nei confronti di esponenti del gentil sesso. Sorgerà nel loro animo sempre la paura, o il dubbio, di offendere, nuocere, insultare colei a cui gli elogi sarebbero indirizzati e magari di ritrovarsi in gattabuia per avere osato esclamare: “Quanto sei bella!”.
È evidente che certe espressioni, quando ripetute e indecenti, possano turbare anche gravemente la persona che ne è oggetto. Su questo non si discute. Tuttavia, ci preme segnalare che negli ultimi giorni stiamo assistendo al dilagare di una sorta di schizofrenia femminista: si vorrebbe mettere al banco degli imputati chiunque si renda colpevole di fare un complimento e incriminare persino parole gentili, prive di qualsiasi losca intenzione. C’è stata chi ha addirittura lamentato un certo tipo di sguardo sulla propria bambina, o chi ha affermato che coloro i quali compiono complimenti per strada sarebbero capacissimi di stuprare. Tutto ciò è preoccupante. Ma, per fortuna, viviamo in uno Stato di diritto, dove vale il postulato, caro agli antichi romani che non per niente sono i padri della legge, “cogitationis poenam nemo patitur”, che esprime il “principio di materialità del diritto penale”, in base al quale non può esservi reato, dunque neppure pena, se la volontà criminosa non si materializza in un comportamento esterno. In estrema sintesi, non sono ammissibili processi alle intenzioni.
Insomma, la mamma che legge nello sguardo del passante sulla propria piccola un turpe e depravato desiderio può avere avuto una sensazione, magari sbagliata, oppure giusta, chi lo sa? A prescindere dalla corrispondenza o meno della sua impressione alla realtà, lo sconosciuto non può essere imputabile di “sguardo indiscreto”. Né chi commenta l’aspetto di una ragazza che passa sulla via può essere ritenuto un potenziale stupratore ed essere querelato per ciò stesso. Se non avessimo il presidio razionale del diritto, trasformeremmo qualsiasi cosa non ci piaccia o ci rechi noia o fastidio in un delitto. E le carceri, già sovrappopolate, scoppierebbero.