Nel 2015 aveva lasciato la Lombardia per trasferirsi nell’autoproclamato Stato islamico insieme al marito, il marocchino Mohamed Koraichi (morto da qualche mese per una infezione intestinale), e ai loro 3 bambini Alice Brignoli, 43 anni, soprannominata “mamma Isis”, cittadina italiana rincasata oggi dalla Siria su un aereo della Presidenza del Consiglio con i 4 figli (il quarto è stato concepito in un campo di addestramento dal coniuge e un’altra donna).

Ora la signora, che è indagata per associazione con finalità di terrorismo internazionale, si trova in carcere a San Vittore. A riportarla in patria sono stati i carabinieri del Ros di Milano in esecuzione di un’ordinanza cautelare emessa 4 anni fa. Il procuratore aggiunto Alberto Nobili, capo del Dipartimento Antiterrorismo della procura di Milano ha dichiarato che si tratta di “una bellissima storia italiana. Una storia allegra che ha consentito di riportare alla vita quattro ragazzini e la loro mamma”.

Ma qui di allegro non c’è proprio nulla. Il figlio maggiore della coppia, il quale oggi ha 11 anni, come ha spiegato Nobili, è stato addestrato fin dal suo arrivo in Siria, avvenuto all’età di 6 anni, in un campo che prepara i bambini a diventare soldati della Jihad. Lì i piccoli vengono educati a odiare e sterminare gli infedeli, ossia i cristiani, gli occidentali, chiunque non sia pieghi alla dottrina islamica radicale. Codesti precetti sono stati inculcati nelle menti di questi 4 ragazzini che adesso dovranno essere de-radicalizzati. In conferenza stampa, del resto, pure Nobili ha osservato che “non è finita qui. Si tratta di bambini che portano dentro un odio feroce. Sono figli di persone che hanno visto morire i genitori”. Gli ha fatto eco il procuratore capo Francesco Greco, che ha puntualizzato: “La minaccia è sempre costante”.

Alice stessa, la quale si è detta felicissima di essere tornata in Italia, era molto orgogliosa dei sui pargoletti in tuta mimetica. Ne esibiva la foto su whatsapp. I bimbi nell’immagine tenevano il dito puntato verso il cielo, verso Allah, quel Dio da raggiungere il prima possibile da martiri. Bignoli non è l’unica foreign fighter del Bel Paese.

Lo scorso novembre la foreign fighter italiana Lara Bombonati è stata condannata dalla Corte d’Assise di Alessandria a 2 anni e 8 mesi di carcere per associazione con finalità di terrorismo. La 29enne, arrestata dalla Digos nel giugno del 2017 a Tortona, si era recata in Siria con il marito trapanese Francesco Cascio, combattente che risulterebbe deceduto da martire sul campo di battaglia nel dicembre del 2016, stando a quanto ha raccontato la moglie. Ci si chiede se la giovane, la quale ribadisce di avere seguito il coniuge poiché obbligata dallo stesso nonché a causa del disturbo di personalità dipendente di cui è affetta, sia realmente pentita di avere giurato fedeltà allo Stato Islamico o se ella rappresenti una minaccia alla nostra sicurezza, una sorta di mina vagante pronta a portare a termine la missione per la quale è stata addestrata.

La sentenza ha suscitato qualche perplessità, dal momento che una pena di neanche 3 anni di gattabuia a chi è ritenuto essere un terrorista appare lieve. Inevitabile domandarsi se forse in Italia sia poco diffusa e per di più scarsa la consapevolezza che il terrorismo di matrice islamica costituisca un pericolo con il quale nell’avvenire dovremo sempre di più confrontarci.

Insomma, si può emigrare al fine di tagliare la testa agli infedeli contribuendo all’edificazione dello Stato islamico e poi rincasare in patria e cavarsela con due annetti di detenzione? Prima di essere tratta in arresto, dalla casa dei suoi, a Garbagna, in provincia di Alessandria, dove aveva fatto ritorno dopo essere stata espulsa dalla Turchia, Lara chattava con la speranza di trovare un nuovo marito musulmano con cui partire ancora una volta per la Siria. Basteranno i mesi passati dietro le sbarre per indurre la musulmana radicale, ex guerriera dell’Isis, a prendere le distanze dalle sue precedenti convinzioni religiose? Ce lo auguriamo, questo sì, ma chi può esserne certo?

Hanno lasciato le loro famiglie e l’Italia per unirsi ai combattenti islamici raggiungendo la Siria e l’Iraq e ora si dicono pentite e chiedono di tornare nel Belpaese con i loro bambini pure Sonia Khedhiri e Meriem Rehaily. Quest’ultima, ventitreenne di origine marocchina che risiedeva nel padovano prima di lasciare il tetto a 19 anni (nel luglio del 2015) per battagliare in Siria, nel dicembre del 2017 è stata condannata in via definitiva a quattro anni per arruolamento con finalità di terrorismo.

“Mi ha attirato su internet Abu Dujana aal Homsi, un giovane siriano che mi contattava via Telegram su una chat segreta. Aveva intenzione di sposarmi eppure io ho rifiutato. Poi ha cominciato a dire che avrei dovuto andarmene dall’Italia e giungere nel Califfato in quanto questa era la volontà di Allah”, ha narrato la fanciulla al giornalista Fausto Biloslavo, che l’ha intervistata nel giugno del 2018 nel nord-est della Siria nel campo dove ella ha abitato sorvegliata dalle forze democratiche curde.

La fanciulla, la quale ha fatto l’hacker per l’Isis, ha maritato un palestinese e ha avuto due bimbi. Oggi assicura di avere subito una sorta di lavaggio del cervello ma di essere improvvisamente rinsavita una volta pervenuta a Raqqa, dove avrebbe scoperto il vero volto spietato dell’Isis, dunque desidera varcare il confine italiano con i suoi pargoletti. Meriem, dopo 4 anni da guerrigliera, ammette di avere sbagliato e supplica perdono in lacrime. Lo scorso ottobre il suo babbo, Roudani Rehaily, operaio marocchino trasferitosi nel nostro Paese allorché Meriem aveva 9 anni, ha dichiarato di avere sentito la figlia al telefono e di averla esortata a raggiungere la Turchia per consegnarsi all’ambasciata italiana, confidando nella clemenza del nostro Stato. Qui sconterebbe la pena di 4 anni di prigione per poi godere della piena libertà.

Tuttavia, sussiste il rischio del cosiddetto “effetto blowback”, ossia la possibilità che i foreign fighters decidano di continuare ad uccidere in nome di Allah una volta rientrati nei Paesi di origine. Tra i miliziani dell’Isis sono numerose le donne, la cui pericolosità non andrebbe sottovalutata. Innanzitutto perché al gentil sesso è affidato in modo particolare il compito di educare la prole, a cui potrebbe quindi essere inoculato l’estremismo islamico, e anche perché il genere femminile rappresenta un tipo di arma non convenzionale, un vantaggio tattico ed operativo per l’Isis, a causa della sua difficile individuazione nonché della sua insospettabilità.

Del resto, l’emancipazione della donna islamica estremista passa attraverso questo genere di atti: ammazzare gli infedeli è un modo per urlare la sua parità nei confronti dell’uomo. Se un tempo la lotta armata era appannaggio esclusivo del maschio, oggi le giovani vengono addestrate al combattimento e fanno carriera nell’intelligence dello Stato islamico, come Hayat Boumeddiene, cittadina francese neata nel 1988, la quale, agevolando il marito terrorista, ebbe un ruolo importante nell’attentato alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo, avvenuto a Parigi il 7 gennaio del 2015.

Il terrore perpetrato dalle donne viene definito “terrorismo non reale” e non perché non sia vero. Esso trucida, eccome. “Non reale” in quanto si stenta ad accettare che una signora possa diventare una macchina di morte efficace e spietata.

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