Sono trascorsi quasi dieci anni dalla pubblicazione di questo che è stato il mio primo libro, “Ali di burro”, a cui sono molto legata. Poiché è da questa piccola opera che il mio percorso di vita ha subito una deviazione che mi ha condotta sulla strada del giornalismo. È narrando la storia di questa giovane donna che ho compreso che per il resto della mia esistenza avrei voluto scrivere in quanto nulla mi rende più felice del dedicarmi anima e cuore a tale attività e qualche anno dopo pubblicai il dattiloscritto che avevo lasciato a lungo chiuso in un cassetto.

Oggi edito di nuovo “Ali di burro”, scegliendo di farlo svincolata da una casa editrice, ponendomi a diretto contatto con i miei lettori, senza intermediari.

Ritengo che i messaggi contenuti in questo volumetto siano ancora e sempre molto attuali e che ciascuno di noi, maschio o femmina che sia, possa rispecchiarsi facilmente in questa fanciulla senza nome, la quale è protagonista del racconto, presentato in prima persona. Ella si è appena affacciata alla vita e si crede fragilissima eppure dimostra una profonda maturità nonché uno straordinario coraggio nel momento in cui rivendica le proprie scelte, anche quelle di cui non va affatto fiera, e assume su di sé la piena responsabilità dei propri errori, senza puntare il dito contro un presunto colpevole. È in fondo questo l’unico modo per crescere e diventare padroni della propria esistenza, evolvendo, migliorando, traendo insegnamento da esperienze e delusioni. Ed è questa altresì la sola maniera per essere liberi.

Pur vivendo in una società in cui tutti fingono di essere ciò che non sono, inclusi i suoi familiari, la nostra tenera eroina, incatenata ad un ideale di perfezione irraggiungibile, la quale pure ha recitato una parte per troppo tempo, ad un certo punto sceglie l’autenticità, quindi di mostrarsi per come realmente è, con i suoi difetti, le sue debolezze, i suoi sbagli. È la medicina che la guarisce, salvandola dai disturbi alimentari.

Un iter travagliato e lastricato di sofferenza, che la ventenne attraversa da sola. “Ali di burro” è pure un libro sull’aborto e sul difficile rapporto genitori-figli, costituito di frequente da superficialità e assenza di dialogo vero. Ed è proprio da tale mancanza di ascolto e comprensione che deriva quel malessere dell’anima che consuma chi si ammala di anoressia nervosa.

Ma la mia intenzione mediante questo scritto era soprattutto quella di affrontare una tematica scottante come l’interruzione di gravidanza proponendo una prospettiva troppo spesso ignorata, quella delle donne che si sottopongono a questo genere di intervento le quali vengono sovente giudicate con severità, definite “assassine”, condannate dalla comunità.

L’aborto lascia una ferita profonda e indelebile, perciò è crudele etichettare chi ha fatto ricorso a tale possibilità senza conoscere la sua vicenda né le intime motivazioni e le situazioni personali che hanno indotto un determinato soggetto a compiere una decisione tanto tragica.

“Sei favorevole o contrario all’aborto?” è uno dei quesiti più sciocchi che possano essere formulati, in quanto non si può essere a favore del brusco spegnimento di una vita che si rifugia e fiorisce nel luogo più sicuro del mondo, ossia il grembo materno. Chi si potrebbe proclamare sostenitore di codesta nefandezza? Eppure, mentre siamo indiscutibilmente contrari all’interruzione di gravidanza e schierati a favore della Vita, non possiamo rifiutare al gentil sesso la libertà di stabilire se diventare o meno madre, se trasformare il proprio utero in un tempio che celebra la nascita o in una tomba in cui seppellirla. Esattamente come non possiamo appiccicare lo stigma di “assassina” su colei che opta per l’aborto o indicarla quale poco di buono, una sorta di bestia egoista e indifferente. Quando si parla di questo argomento occorre adoperare quel minimo di sensibilità (che purtroppo sempre è difettosa) nei confronti delle persone di sesso femminile le quali, per motivi che non tocca a noi valutare, hanno abortito precipitando subito dopo nell’abisso oscuro che segue la perdita di un figlio, sebbene questi non sia mai venuto al mondo, non sia mai stato visto, conosciuto e abbracciato.

“La Vita è sempre preferibile al Nulla”, vergava la grande Oriana Fallaci nel suo libro più bello, ossia “Lettera ad un bambino mai nato”, allorché vestiva i panni di una giovane in carriera, in bilico tra la scelta di dare la vita o negarla. Ed è proprio così. L’esistenza è la via consigliata, sperata, auspicata. Sempre. Poiché l’alternativa è qualcosa di sconosciuto, un gomitolo aggrovigliato di eventualità rimaste sospese, la fine, l’oscurità, il rimpianto, il rimorso, il pentimento inammissibile persino a se stesse. Ecco perché nell’epilogo la protagonista dell’opera di Fallaci muore dopo che è morto il suo bambino. Si tratta di un decesso simbolico: a perire irrimediabilmente è una parte di noi stesse.

Il tema della interruzione di gravidanza andrebbe affrontato come fa Oriana. Senza giudizi né pregiudizi. Senza la pretesa di indicare la strada giusta. Senza ordini. Senza ergersi su un piedistallo morale. Senza dilungarsi in prediche. Senza impartire facili lezioni. Bensì cercando di aiutare la fanciulla che è ferma davanti a tale bivio ad orientarsi dopo un’approfondita, solitaria e dolorosa riflessione. Si sappia dunque che l’aborto non si fa mai e non deve essere fatto mai a cuor leggero.

Deprecabile, invece, è l’atteggiamento di aspra e intransigente riprovazione che la Chiesa continua a manifestare nei confronti delle donne che abortiscono, reputate alla stregua di sanguinarie criminali che si dilettano a rotolarsi tra le lenzuola per poi riparare le conseguenze di tanta leggerezza trucidando esserini innocenti. Fanno impressione le parole pronunciate nell’ottobre del 2018 da papa Francesco: “L’aborto è come affittare un sicario per risolvere un problema”. Del resto è noto che le ragazze che si macchiano di codesto crimine (a giudizio della Chiesa) sono considerate responsabili di peccati gravissimi tanto che esse vengono scomunicate per “latae sententiae” e talvolta isolate e defraudate persino all’interno del proprio nucleo familiare, in cui dovrebbero semmai ricevere conforto. Il pontefice, così come i politici, discettando di interruzione di gravidanza omettono sistematicamente di sottolineare il calvario che accompagna tale opzione nonché il fatto che a spegnersi spesso non è un feto, bensì due esseri umani.

La protagonista di “Ali di burro”, per attribuire un senso alla sua tribolazione e non rendere vano il delicato passaggio su questo mondo della creatura che ha ospitato nel proprio grembo per qualche settimana, smette di maltrattare il suo corpo, miracolosamente capace di dare la vita, attraverso digiuni e privazioni e questo segna la sua faticosa rinascita.

Mi premeva altresì evidenziare la ingiustissima condizione di totale abbandono in cui versano tutt’oggi alcune giovani in stato interessante, che non ricevono il necessario supporto morale e materiale da parte di colui che ha contribuito per il 50% al concepimento. Situazioni ancora adesso troppo diffuse. Essendo il genere femminile ad accogliere nel proprio utero quell’embrione che si trasforma in persona nonché a partorire, da sempre avviene che uomini vili scarichino soltanto sul cosiddetto sesso debole le responsabilità che discendono dall’avere procreato, sia nel corso della gestazione che in seguito. Eppure l’atto del generare implica per sua stessa natura la partecipazione di due soggetti, i quali per il benessere della prole sono chiamati a collaborare e sostenersi reciprocamente nella fasi successive. Insomma, la gravidanza non è qualcosa che attiene soltanto alla donna.

Buona lettura.

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