Cari amici, questa sera desidero condividere con voi la parte iniziale di uno dei racconti che più amo del mio scrittore e giornalista preferito, Dino Buzzati. L’opera è tratta dal volume “Sessanta racconti”, pubblicato nel 1958. Leggo spesso questo scritto poiché mi trasmette tanta serenità. Buzzati parla del suo mondo interiore.
Dino Buzzati
Da questa città che nessuno di voi conosce, mando notizie, ma non bastano mai. Ciascuno di voi forse conosce o frequenta altri paesi; eppure in questo che dico nessuno mai potrà abitare tranne io. Di qui appunto l’unico ma indiscutibile interesse delle informazioni; perché questa città esiste e che possa darne precise notizie c’è uno solo. Né alcuno può dire onestamente: che mi importa? Basta che una cosa esista, anche se piccola, perché il mondo sia costretto a tenerne conto. Figurarsi poi una città intera, grande, grandissima, con quartieri vecchi e nuovi, labirinti interminabili di strade, monumenti, ruderi che si perdono nelle notti dei millenni, cattedrali traforate a filigrana, parchi (e al vespero i picchi che intorno giganteggiano stendono l’ombra loro sulle piazze dove giocarono i bambini), dove ogni pietra, ogni finestra, ogni bottega significano un ricordo, un sentimento, un’ora potente della vita!
Tutto sta, si capisce, nel saper descrivere. Perché di città sul tipo della mia ce ne sono al mondo migliaia, centinaia di migliaia; e spesso, posso ammetterlo, in questi agglomerati urbani abita uno solo, come appunto nel caso che personalmente mi riguarda. Ma in genere è come se queste città non esistessero. Quanti sanno darci soddisfacenti informazioni? Pochi. La maggioranza non sospettano neppure l’importanza dei segreti di cui sono partecipi, né si sognano di comunicarli, oppure mandano lunghe lettere zeppe di aggettivi ma quando si è finito di leggerle per lo più ne sappiamo come prima.
Io invece sì. E perdonate se può sembrare una vanteria ridicola. Poco, pochissimo, ma ogni tanto mi riesce, con grandi sforzi lo confesso, a trasmettere una idea sia pure incerta e vaga della città a cui la sorte mi ha assegnato. Di quando in quando, fra tanti miei messaggi che non vengono neppure letti fino in fondo, uno si fa ascoltare. Tanto è vero che, mosse da curiosità, piccole comitive di turisti arrivano alle porte e mi chiamano affinché io li meni in giro e faccia le adeguate spiegazioni.
Ma come è raro accontentarli. Loro parlano una lingua e io un’altra. Si finisce per intenderci per mezzo di segni e di sorrisi. Inoltre nei quartieri più interni che interessano di più io condurli non posso: assolutamente. Io stesso non ho il coraggio di esplorare quei meandri di palazzi, di case e di tuguri (dove stazionano gli angeli o i demoni?).
Perciò questi gentili visitatori generalmente li conduco a vedere le cose più consuete, il Municipio, il Duomo, il Museo Croppi (si chiama così) eccetera; che per la verità non hanno niente di speciale. Di qui la loro delusione.