Nelle intenzioni dei suoi promotori l’obiettivo del certificato Covid digitale Ue, o Green Pass, che sarà rilasciato a partire dal prossimo primo luglio, è quello di ripristinare la libertà di circolazione delle persone sul territorio comunitario, libertà che costituisce uno dei pilastri fondamentali del processo di integrazione europea ma che pure è stata gravemente compressa con l’esplosione della pandemia la quale ha indotto i governi europei all’adozione di pesanti misure restrittive.

Coloro che sono muniti di certificazione verde non saranno sottoposti a test del tampone né a quarantene, potendo in tal modo spostarsi attraverso le frontiere degli Stati membri senza intoppi né contrattempi. Il Green Pass certifica l’avvenuta vaccinazione, o la guarigione dalla Covid-19 o l’eventuale negatività al coronavirus (non è valido il test fai da te). Tuttavia, nella realtà, questa specie di passaporto sanitario non fa altro che limitare la libera circolazione, ponendo nuovi limiti ed obblighi, moltiplicando oltretutto la burocrazia, i passaggi, le comunicazioni, la gestione dei dati.

Per di più gli Stati europei non hanno ancora stabilito all’unisono se il certificato debba essere concesso dopo la prima o piuttosto dopo la seconda dose, né il periodo di validità del test in assenza di vaccinazione (alcuni Stati accettano il tampone rapido, altri no). Insomma ogni Paese membro si regolerà da sé e questo favorisce il caos generale nonché forme di discriminazione nei confronti dei cittadini europei, i quali, fino allo scorso anno, si muovevano sul suolo continentale esibendo semplicemente il documento di identità e neppure il passaporto.

Insomma, l’Europa unita così come la conoscevamo ieri potrebbe già oggi non esistere più. E, del resto, il virus cinese ne ha messo in luce debolezze ed egoismi, contraddizioni e lacune.

Tornado alla questione Green Pass, non possiamo fare a meno di sottolineare un aspetto: esso dovrebbe provare l’immunità derivante o dalla vaccinazione o dalla estinta infezione, oppure provare la non contagiosità per mezzo del tampone negativo, tuttavia nessuno di questi tre elementi garantisce con certezza l’immunità, sicché si introduce di fatto una discriminazione la quale però ha un fondamento soltanto relativo.

Inoltre, tenendo a mente l’articolo 3 della Costituzione che sancisce il principio di uguaglianza (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”), l’effettiva disponibilità del siero su larga scala e l’impossibilità di poterlo somministrare a chi è portatore di patologie determinano forme di emarginazione e penalizzazione per chi, per varie ragioni, non possa beneficiarne.

Infine, la libertà di circolazione (che ora sarà vincolata al possesso del certificato verde) e il diritto all’autodeterminazione terapeutica possono essere condizionati solamente in presenza di una legge statale che (si veda la sentenza della Corte Costituzionale 5/2018) è l’unica a poter subordinare l’esercizio di determinati diritti o libertà al rispetto di alcune profilassi altrimenti facoltative. Impedire la circolazione ai soggetti che non dispongono del Green Pass, in mancanza di una norma nazionale o europea che stabilisca un obbligo vaccinale, è di dubbia legittimità.

Non dimentichiamo che la sicurezza sanitaria, quantunque da mesi e mesi ci venga raccontato l’esatto opposto, non rappresenta il bene assoluto. Il diritto alla salute, infatti, deve essere bilanciato con altri diritti fondamentali, incluso quello di movimento, secondo principi di “proporzionalità e non eccedenza”.

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