Ci siamo abituati ormai ad una nuova concezione di “reduce di guerra”, che però è completamente diversa da quella diffusa fino a qualche decennio fa. Oggi i “presunti” reduci, aventi diritto di asilo politico o di protezione umanitaria, ci appaiono come persone arrivate qui sui barconi, a cui lo Stato per questo deve offrire un assistenzialismo esasperato fino all’eccesso che li trasforma inevitabilmente in persone piene di pretese e prive di spirito di sacrificio, difficili da integrare in uno Stato di diritto e civile.
Ma come erano i reduci di guerra anni fa?
Sporchi, pieni di pidocchi, denutriti, seminudi e scalzi, già vecchi ad appena vent’anni, per gli orrori della guerra incisi negli occhi. Così puzzolenti che la gente si tappava il naso al loro passaggio, mentre scendevano da quel piccolo vagone fatiscente che li riportava a casa.
Casa. Un sogno. Un miraggio. Nelle notti gelide in mezzo al nulla bianco della steppa russa con oltre 40 gradi sotto lo zero, avevano immaginato il tepore del focolare domestico, le loro mamme lontane, laggiù, immobili, ad aspettarli davanti ad un piccolo camino acceso, con una pazienza che forse appartiene solo alle donne.
Per raggiungerle più velocemente qualcuno aveva imbracciato il fucile e lo aveva diretto contro se stesso. Qualcuno si era addormentato con il desiderio di non risvegliarsi più ed era stato esaudito. Almeno in questo. Qualcun altro, maledicendo proprio chi lo aveva messo al mondo, si era gettato contro il fuoco nemico, solo per morire subito e non pensarci più.
Quanti si erano tolti la vita sotto gli occhi impotenti dei compagni! Perché la guerra è così: ti annienta prima dentro e poi fuori. Non ci sono mai vincitori. Soltanto sconfitti.
Erano partiti in tanti, 229 mila soldati italiani, carne al macello, giovani e forti, ma privi di armi moderne e di equipaggiamento. Ne tornarono indietro superstiti circa 10 mila. Tra questi mio nonno, Salvatore Pentivolpe. Alla gente che li scansava perché luridi, il generale Gariboldi solenne disse: “Questi sono i nostri eroi! Inchiniamoci”. Così i loro occhi spenti si illuminarono di lacrime, perché essi non si sentivano affatto eroi, bensì solo ombre curve dei giovani uomini che erano stati.
Per sopravvivere avevano mangiato carne umana. Un consiglio del medico dell’esercito. Anzi un ordine. Così un giorno avevano trovato il loro pasto fresco in mezzo alla neve. Il cadavere di uomo proveniente dalla Mongolia, appena freddato in un corpo a corpo. Si guardarono, i loro visi erano denutriti, cadaveri ambulanti, tenuti in vita non si sa da cosa. Mancava il coraggio di scendere così in basso, alla stregua di bestie, in nome della sopravvivenza: mangiare un proprio simile.
Alla fine presero il mongolo e, individuata una cascina in mezzo a quel nulla, riuscirono ad accendere un fuoco e lo cucinarono. Soltanto quel brodo caldo, a giudizio del medico, li avrebbe potuti salvare.
Mio nonno, reduce di guerra, ci insegnò il rispetto del cibo. È l’eco della guerra, che ha il vantaggio di rendere le generazioni future migliori, almeno finché non smettono di ascoltarlo.
Essere esule di guerra è avere una consapevolezza in più della esistenza che hai temuto di perdere. È svegliarti nel cuore della notte in preda agli incubi ed urlare in modo disperato: “No, ti prego, non lo fare, non spararti”. È avere rispetto del cibo, non gettarlo nei cassonetti poiché non ci soddisfa abbastanza. È avere dignità. Non chiedere ogni dì l’elemosina agli angoli fissi delle strade, chiacchierando allegramente al cellulare con i familiari rimasti in madre patria, i quali, in piena guerra, non si capisce come possano godere di connessione internet, telefonini di ultima generazione, ricariche, nonché fare chiamate intercontinentali. Essere reduce di guerra è avere voglia di lavorare, non rifiutare ogni dolore ed ogni fatica fisica.
Un esule di guerra lo riconosci con un colpo d’occhio. È deperito. Spento. Non arrogante. Non passa le giornate a bighellonare o ad oziare appoggiato alla finestra dell’albergo che lo ospita, fumando e lamentandosi del servizio. Non protesta perché gli manca la wi-fi. Non offende il popolo che lo accoglie e lo sfama se gli viene spiegato che, per salire su un mezzo pubblico, anche lui, come chiunque, debba pagare un biglietto. Non si ubriaca e poi fa risse con i suoi compagni, perché di violenza ne ha avuto anche abbastanza. Non violenta fanciulle per strada. Non scappa dal centro di accoglienza mandando al diavolo le forze di polizia.
Per non mancare di rispetto ai nostri reduci che hanno combattuto per la nostra libertà, non chiamiamoli “rifugiati”.