Siamo tra i popoli più longevi al mondo, eppure l’Italia non risulta essere un Paese per anziani. Attenzione, considerazione e rispetto nei loro riguardi sono scarsi. La fotografia degli italiani canuti consegnataci ieri dall’Istat ci mostra una realtà drammatica la quale ci fa comprendere che problemi, afflizioni e paure dei nostri nonni non si esauriscono tra la prima e la seconda dose di vaccino contro il coronavirus, purtroppo. Infermi, poco autonomi eppure privi di qualsiasi supporto sociale, in condizioni abitative sfavorevoli e senza un soldo in tasca, così vivono oltre 2,7 milioni di individui su una popolazione di riferimento di circa 6,9 milioni di over 75. Un milione e duecento mila anziani dichiarano di non potere contare su un sostegno adeguato alle proprie necessità, di questi circa un milione abita da solo o con altri familiari tutti over 65. Inoltre, sono circa 100 mila i vecchi che, non disponendo di sufficienti risorse materiali, sono costretti a rinunciare ai servizi di assistenza a pagamento.

Campano, insomma, tagliati fuori dalla comunità, in una solitudine talmente profonda e opprimente da fare loro desiderare addirittura la morte. Eppure sembrava che, improvvisamente, lo scorso anno, con l’esplodere della pandemia che ha massacrato soprattutto i soggetti più in là con l’età, ci fossimo accorti della loro esistenza, pentendoci quasi di averli trascurati o tenuti in considerazione soltanto allorché ci possono essere utili. Invece no. Il virus cinese non ci ha migliorati affatto, nonostante ci siamo illusi che questo sarebbe avvenuto. I nonni erano soli ieri e sono ancora più soli oggi, posti ai margini di una società che coltiva il culto del corpo, scattante ed efficiente, della forma fisica, della giovinezza, una società dove non si ha mai tempo di ascoltare chi avrebbe tanto da raccontare e trasmettere, da insegnare e donare.

Si crede, a torto, che, superati i 70, la persona cessi di essere una risorsa, trasformandosi in un peso. È in tal modo che dilapidiamo il nostro capitale sociale migliore. Lo parcheggiamo in un angolo, dimenticandocene. Lo escludiamo, forse convinti che a noi non toccherà mai il medesimo destino che stiamo riservando ad altri.

La nostra classe politica non soltanto asseconda questa mentalità ma altresì la alimenta facendo di tutto per tagliare fuori gli attempati dal dibattuto pubblico. Che ci interessi della loro salute è una ipocrisia. Fu il comico Beppe Grillo nell’ottobre del 2019 a proporre l’abolizione del diritto di voto per gli anziani. Si tratta di una fetta consistente di popolazione, dato che sono oltre 13 milioni gli over 65 dello stivale (13 milioni 923 mila a inizio 2021, 23,5% della popolazione totale, Istat), i quali, se fosse stato per Grillo, che giovane non è ma che pure non sembra rammentarlo, si sarebbero trovati spogliati del diritto di essere rappresentati, quindi di esistere. Tale proposta fu sostenuta da elementi di spicco della sinistra, ad esempio, dal sindaco di Bergamo Giorgio Gori, Pd. La narrazione della sinistra vuole che i vecchi non votino a favore delle nuove generazioni né del pianeta, che siano egoisti, incapaci di proiettarsi in avanti, di avere a cuore il destino dei nipoti. Insomma, i giallorossi odiano i vecchi e fanno di tutto per fomentare una guerra intergenerazionale che non ha ragione di sussistere poiché gli interessi di giovani e anziani non sono inconciliabili e antitetici. I progressisti vorrebbero attribuire il diritto di voto ai sedicenni. E strapparlo ai progenitori appare loro persino sensato. Ecco allora che non stupisce che sul nostro territorio milioni di ultrasettantacinquenni stasera non faranno un pasto decente, dormiranno in un tugurio umido, non potranno sottoporsi a quella visita medica che pure sarebbe indispensabile e non avranno nessuno che gli porga una carezza. Intanto Enrico Letta ci spiega l’urgenza della patrimoniale per regalare la dote ai diciottenni o dello ius soli per omaggiare gli immigrati della cittadinanza.

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