Condivido con voi l’articolo che segue. L’ho scritto per Libero alcuni anni fa, credo fosse il 2016. Il direttore Feltri mi mandò presso l’Istituto dei Ciechi di Milano al fine di fare questa esperienza per poi raccontarla ai lettori: il “dialogo nel buio”, un percorso della durata di circa due ore, durante le quali si passa da un ambiente ad un altro, sempre al buio pesto. Non credevo che la cosa mi avrebbe toccato tanto profondamente. Buona lettura e grazie.
Percorro a piccoli passi il solenne tappeto nero che mi introduce, non senza qualche perplessità, in un’anticamera scura in cui mi muniscono di un bastone bianco e alle cui pareti, in basso, vedo ancora fioche luci arancioni, abbastanza accese da darmi conforto.
Ho dovuto lasciare fuori tutte le mie cose, incluso il mio inseparabile smartphone, grazie al quale mi sento sempre vigile sul mondo. Sono quasi certa che il buio assoluto sia quello: una stanza oscura con luci arancioni sospese sul fondo. E mi dico: “Non è poi così terribile”. E invece no. Quello è solo un passaggio per scaraventarmi con una dolce violenza nel buio assoluto. Buio pesto. Un buio che non conosciamo e che, al primo impatto, mi terrorizza.
Per un attimo mi paralizzo. Poi penso di scappare, di tornare indietro, nella stanza delle lucine sospese e da lì alla luce accecante dell’ampio cortile. L’oscurità mi strizza e non so neanche il perché. Escono lacrime. Sono silenziose. Al buio nessuno può vederle. Tranne Isabella. Lei mi sussurra: “Non ti preoccupare. A volte succede”. Cerco di rendere la mia voce lucida più che mai per nascondere la lucidità degli occhi e chiedo: “A cosa ti riferisci?”. Lei risponde: “Al fatto che stai piangendo”.
Isabella è cieca. Lei non può vedere con gli occhi. Quindi per vedere usa qualcos’altro. Forse è il cuore. Io non so cosa sia. So soltanto che ci vede benissimo, intanto fluttua leggera in quel nulla buio in cui io, impacciata, non riesco a muovermi. Lei lo fa come se vedesse alla perfezione. Mi rendo conto che nel buio, lì, in quel momento, l’unica cieca tra me e lei sono soltanto io. Quindi mi affido a lei quando sorridente mi dice: “Non avere paura, dammi la mano”. Il sorriso di Isabella è la prima cosa che io ho visto nel buio in cui non si può vedere nulla. Mi sono sentita un po’ meno disabile per questo.
Ed in quell’attimo ho anche capito perché sono venute giù tutte quelle lacrime. “Dunque, è questo, il buio. Ma come si può vivere qui sempre? È terribile. Sono sola”, mi ero detta. Sì, essere sola. Una consapevolezza che alla luce del sole, a volte, è persino un conforto, almeno nei giorni in cui non hai voglia di comunicare. Ma che nelle tenebre, chiara più che mai, aveva perso in un nano secondo tutto il suo fascino. Nell’oscurità sei costretto a fare i conti con te stesso. Non c’è nessun altro.
Sei obbligato ad accettare i tuoi limiti. E le tue fragilità. I tuoi handicap, quelli che abbiamo tutti quanti e che nascondiamo sotto quintali di trucco e di scuse. Così la cosa più giusta da fare in quel momento mi è sembrata affidarmi e fidarmi. Due cose che non facciamo quasi mai nella vita alla luce del sole. Ci osserviamo sospettosi. Guardiamo. Senza cogliere nulla. In quel nero ho trovato subito la mano di Isabella, come se la vedessi, come se sapessi che fosse lì, tesa verso di me.
Si afferma che non vada troppo lontano un cieco che si affida ad un altro cieco, ma io grazie ad Isabella ho fatto uno dei viaggi più belli della mia esistenza, ad un certo punto del quale ho voluto lasciare la sua mano perché il buio, che mi ha sempre terrorizzata, non mi faceva più paura.
Ho camminato lungo un sentiero ai cui margini ho potuto sentire con la punta delle dita la freschezza delle foglie. Ero in un giardino rigoglioso. Lo vedevo nella mia mente. Fuori, in mondo ormai lontanissimo da me, era pieno giorno. Ma lì, in quel giardino, era sera e c’erano tante stelle. Ad un certo punto, il terreno è diventato più soffice, mi sono chinata per toccarlo. Ero su un prato vellutato. Accanto a me fiori di lavanda, un cespuglio di rosmarino, che mi ha catapultata in ricordi lontani.
Ho attraversato un ponte di legno, fluttuava sotto i miei piedi. Un po’ come il buio. Il buio non è immobile. Ti dona una sensazione di dondolio. Sentivo un dolce rumore di acqua che scorre, come se ci fosse un ruscello. Ho allungato la mano e l’acqua fresca e leggera ha sorpreso la mia pelle. Era come se la sperimentassi per la prima volta. La mia esplorazione è continuata, passando da un ambiente ad un altro, toccando gli oggetti per cercare di capire cosa fossero, respirando il profumo delle spezie, ascoltando il tintinnio dei chicchi di caffè che, quando cadono gli uni sugli altri, fanno una melodia simile a quella della pioggia.
Isabella era sempre accanto a me. Ad un certo punto mi ha chiesto di toccare una parete. Non riuscivo a capire cosa fosse. E allora la mia guida mi ha invitato ad utilizzare entrambe le mani. Solo così ho compreso che si trattava del tronco di un gigantesco albero. Davanti al mio stupore, Isabella mi ha spiegato: “Per vedere bene ci servono due occhi. Funziona così anche con le mani”.
Poi siamo state in un mercato, dove ho potuto facilmente riconoscere diversi ortaggi, attraversare una strada affollata, fino ad arrivare su una spiaggia. I rumori fastidiosi della città erano ormai distanti. Adesso sentivo il mare, il garrito dei gabbiani, il vento sulla pelle. Isabella mi ha chiesto di seguirla fino ad una barca. Non l’ho vista, ma era di sicuro una barca tutta in legno, di quelle un po’ vecchie, ma ben tenute e andava a motore. Il vento era fresco ed io pensavo: “Finalmente! Quanto mi è mancato il mio mare!”.
Me ne accorgevo solo in quel momento che non lo vedevo. Ero felice. I gabbiani continuavano a volare rumorosi sopra le nostre teste. Isabella mi ha invitata ad immergere l’estremità del mio bastone bianco, ormai inseparabile da me, in mare e ho sentito l’acqua fare resistenza, attraversarlo, scorrere con leggerezza. Isabella mi ha domandato: “Dove siamo e che ora è?”. Io le ho risposto: “Siamo quasi a casa ed è mezzogiorno”. E lei: “Non c’è troppo vento per essere solo mezzogiorno?”. Ed io: “Dalle mie parti è sempre ventoso”. Ero lì, vicina alla mia casa sulla spiaggia, affacciata sullo stretto di Messina. Ci ero arrivata non so come, non so neanche il perché. So soltanto che ad occhi chiusi, al buio, si può volare. I limiti non esistono.
Dopo circa un’ora e mezza io ed Isabella abbiamo concluso la nostra magica avventura in un bar. Nonostante il buio pesto, ci siamo sedute al tavolo numero 2, l’unico libero, e abbiamo bevuto il nostro drink, chiacchierando come se fossimo amiche da sempre.
In fondo, lo spazio ed il tempo sono dimensioni relative. Ed io l’ho intuito quel giorno. Ci affidiamo alla vista per giudicare tutto ciò che ci sta davanti. Forse dovremmo semplicemente comprenderlo toccandolo con entrambe le mani, ossia abbracciandolo nella sua totalità. O respirandolo, facendolo nostro.
Da sempre l’uomo collega al buio il male. Le tenebre fanno paura a chiunque perché rappresentano ciò che non conosciamo e che, quindi, non possiamo controllare. Eppure l’oscurità non spaventa chi in essa è costretto a vivere in modo permanente, ossia le persone non vedenti. Perché, in fondo, persino il buio più nero può essere colorato.
È un percorso a luci spente, attraverso il quale puoi finire ovunque, la mostra che si trova presso l’Istituto dei Ciechi di Milano e che si intitola “Dialogo nel buio”. Non si tratta di una simulazione della cecità, bensì di un invito rivolto a chiunque, adulti e bambini, a sperimentare un nuovo modo di relazionarsi alla realtà nella quale viviamo.
Oltre che un’esperienza multisensoriale, “Dialogo nel buio” altro non è che un colloquio con la parte più intima di noi stessi. Eppure nel buio diventa più facile anche il contatto con l’altro, forse perché a luci spente non esistono barriere né differenza tra noi e il prossimo. Nel buio siamo tutti uguali. Siamo più vicini. In assenza dell’immagine visiva, dominante nella società virtuale contemporanea, la comunicazione diventa più vera e più profonda.