Il calciatore Cristiano Ronaldo ha stipulato una polizza milionaria per tutelare le sue gambe, il pilota Fernando Alonso ha assicurato i suoi pollici, la cantante Jennifer Lopez il suo ammirato fondoschiena, Madonna la sua voce, Monica Bellucci il suo décolleté e il critico gastronomico Edoardo Raspelli due dei suoi raffinati sensi: gusto ed olfatto. Al Corriere della Sera, dove fu accolto quando era ancora un pischello, studente del secondo anno di liceo classico, i colleghi lo chiamavano “tacchino”, per via del suo aspetto pacioso e florido, che contrastava con l’agilità e la scioltezza della sua scrittura e delle sue movenze. Edoardo era sempre al posto giusto nel momento giusto ed arrivava ogni volta prima degli altri, sia con gli arti che con la testa. Fu lui il primo giornalista a giungere sul luogo dell’assassinio del commissario Luigi Calabresi, avvenuto a Milano il 17 maggio del 1972. Insomma, il tacchino correva e correva lesto come uno struzzo, il quale, pur pesando 150 kg raggiunge una velocità di 70 km/h. “Varcava le porte della redazione sempre con la notizia in bocca”, dice di lui Vittorio Feltri, con il quale Edoardo lavorò gomito a gomito, in un team composto da giovani promesse, quali Ferruccio De Bortoli, Gian Antonio Stella, Massimo Donelli. “Certo, io mi occupo di tagliatelle, questi invece sono diventati importanti direttori”, osserva il cronista, il quale nutre forse quest’unico rimpianto. Come tutti i grandi del giornalismo, da Oriana Fallaci a Dino Buzzati, pure Raspelli intraprese la carriera occupandosi di cronaca nera, e narrò mirabilmente gli avvenimenti più drammatici degli anni di Piombo. Era già stato assunto da Spadolini nel 1971 al Corriere d’Informazione, quando, nell’autunno del 1975, il direttore Cesare Lanza decise di inaugurare sul foglio di via Solferino le pagine dedicate ai ristoranti ed affidò la rubrica di stroncature “Il faccino nero” – destinata ad un clamoroso successo – proprio ad Edoardo, forse perché non aveva dubbi riguardo il fatto che Raspelli fosse una buona forchetta e soprattutto che non avesse peli sulla lingua. Fare le pulci ai ristoratori appariva essere una sua vocazione naturale, attento com’era persino ai dettagli. Una volta scrisse che al Rigolo, considerata prestigiosa “mensa” dei giornalisti e dei direttori del Corriere, aveva visto con i suoi occhi che le forchette venivano pulite con le mani. “La pagai cara: mi venne interrotta la collaborazione”, ricorda il conduttore senza ombra di pentimento.

Nacque con Raspelli, il suo patriarca, la critica gastronomica vera. Quella tesa a fornire al lettore non solo un giudizio onesto, ma anche una narrazione che gli dia la sensazione di essere stato in un locale, pur non essendoci mai entrato. “Non mi interessa spiegare il piatto, io voglio raccontare pure l’atmosfera che si respira in un ambiente”, specifica Edoardo, al quale viene l’orticaria se lo definiscono “gastronomo”, o “critico gastronomico”. “Il primo è colui che prepara le tartine, il secondo è quello che va a mangiare e si concentra sulle portate. A me non basta tutto questo”, puntualizza. Chiamatelo quindi “cronista della gastronomia”. 

Fin dagli esordi, se c’era da dire che un ristorante, quantunque di fama, serviva nient’altro schifezze, sebbene presentate con i fiocchi, Edoardo lo scriveva, eccome se lo scriveva. Tanto che il cronista del gusto collezionò minacce a causa delle sue recensioni negative ed un dì gli fu consegnata persino una lugubre corona di fiori. Neanche in quel caso Edoardo restò senza parole e sull’edizione successiva della sua rubrica rispose: “Volevo ringraziare chi mi ha mandato la corona di fiori ma anche rassicurarlo: la sua cucina è sicuramente fetente ma non mortale”. Dunque, vergare di cucina comporta più pericoli che vergare di delitti, mafia, omicidi, affari sporchi. Edoardo faceva una e l’altra cosa contemporaneamente, tanto da essere uno dei pochi che sgobbano persino nella pausa-pranzo, poiché per Raspelli mangiare non è un semplice piacere né una necessità fisiologica, bensì una missione.

Ben presto Edoardo divenne il terrore di tutti coloro che vivono di ristorazione. Nel 1985 riuscì persino a farsi assumere in incognito, in qualità di cameriere, in un albergo della riviera romagnola, l’hotel ABC di Rivazzurra di Rimini, esperienza che riportò sulle pagine del settimanale La Domenica del Corriere, diretto allora da Pier Luigi Magnaschi, oggi editore di Italia Oggi.

Dalla carta stampata alla televisione il passo fu breve. E nel 1998 il produttore televisivo Roberto Ebale, riconoscendone le doti, lo volle a tutti i costi nel programma Melaverde, che Raspelli oggi, dopo 21 anni e 614 puntate, si appresta a lasciare. “Non intendo essere usato ad intermittenza, mi sembra di essere una sorta di tappabuchi”, ci confida il conduttore, il quale non ha gradito che Mediaset gli abbia offerto la possibilità di condurre metà delle puntate previste per la prossima stagione. Certo, sarà dura, soprattutto per un tipo come Edoardo che non riesce mai a stare fermo, smettere di girare l’Italia in lungo e in largo, penetrando nei meandri della penisola, lì dove spesso si nascondono i sapori più sorprendenti e genuini. Tramonta con Raspelli, che andava ad intervistare persino le capre, l’epoca romantica di una enogastronomia che investiga le radici della nostra cultura del gusto. Ci resterà la spettacolarizzazione dello spezzatino, trasmessa ogni dì su tutti i canali, fino a darci il voltastomaco.

“Quando intrapresi questo mestiere si mangiava da disperati, ci si recava a cena fuori soltanto il sabato sera. La svolta avvenne alla fine degli anni Settanta e si estese per tutti gli anni Ottanta con la ricerca del piacere. La situazione ora si è involuta: le famiglie arrancano, l’euro ha fatto raddoppiare i prezzi al consumo e non gli stipendi, e soprattutto stiamo assistendo ad un’involuzione gastronomica gravissima, che si traduce in una esagerata attenzione alla fraseologia d’effetto nonché in una cucina che mira a stupire a tutti i costi, a fare del sensazionalismo, eppure inconsistente”, continua Raspelli, che insiste sulla ricetta migliore, quella delle tre “t”: terra, territorio e tradizione. “Dei vestiti, delle auto, dei lussi non mi è mai importato nulla. Investo i miei soldi nei piaceri della tavola. Anche perché per mangiare davvero bene occorre spendere”, conclude l’esperto. 

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Pubblicato su Libero del 13 agosto 2019

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