di Fabrizio Maria Barbuto
Evelyne McHale era la perfetta incarnazione degli spiriti più tormentati, quelli che si sentono sempre inadeguati alle aspettative altrui pur dando la chiara impressione di appagarle, o che covano la perenne sensazione di essere nel posto sbagliato anche quando l’ambiente è compiaciuto della loro presenza.
Il suo temperamento dissociato dalla realtà la spingerà a gettarsi dall’86esimo piano dell’Empire State Building di New York, nell’aspettativa di interrompere la sua breve vita prima che le circostanze la persuadano a vestire i panni della moglie insoddisfatta. Ma il violento impatto col suolo darà inizio ad un fenomeno di costume che, ancora oggi, la vede eterna icona di un fascino enigmatico.
Robert Wiles, un giovane studente di fotografia che si trova a pochi passi dal luogo della tragedia, immortala in uno scatto il corpo della fanciulla. L’immagine è ai confini della realtà: la vertiginosa collisione non è bastata a deturpare la figura di quella ragazza che sembra stia dormendo: la posa è composta, l’espressione sognante, i vestiti immacolati. La mano sinistra, quasi in uno slancio di vanità, solleva il filo di perle che porta al collo.
L’evocativo ritratto fa il giro del mondo attraverso le pagine di LIFE, e mentre ad ogni lettore della rivista diviene familiare la fisionomia di Evelyne, restano ignoti a tutti i suoi trascorsi di vita: la madre della 23enne abbandonò il marito ed i loro sette figli quando erano appena dei bimbi, ma a riportarne le conseguenze più devastanti fu proprio Evelyn, la quale cominciò a temere che, in qualche anfratto della sua complessa personalità, si annidasse una profetica eredità materna: il germe di un abbandono cui avrebbe assoggettato coloro che la amavano.
È per questo che cercherà strenuamente di persuadere gli altri ad allontanarla prima che sia lei a farlo. A rendersi più che mai espressione delle sue paranoie, saranno le manie incendiarie: per indurre l’esercito a sottrarle fiducia appicca il fuoco alla sua divisa militare; adotta lo stesso sistema al vestito da damigella che deve indossare al matrimonio del cognato, nell’aspettativa di minare i sentimenti del partner, ma egli, animato da un amore sempre più incondizionato, la chiederà perfino in moglie.
Non le rimane, a quel punto, che distruggere l’unico abito che nessuno potrà più rammendare: il suo stesso corpo. Ma per beffa della sorte, anch’esso resterà intatto come l’amore di coloro che ha provato a scacciare.
Alle 7 del mattino del primo maggio 1947 sale a bordo del treno che, da Easton, la condurrà a New York. Una volta qui scrive poche righe d’addio: “Non voglio che qualcuno della mia famiglia o estraneo veda alcuna parte di me. Potresti distruggere il mio corpo con la cremazione? Prego te e la mia famiglia: non fate per me alcun servizio funebre, o una cerimonia di ricordo. Il mio fidanzato mi ha chiesto di sposarlo a giugno. Non penso che sarei una buona moglie per nessuno. Sta molto meglio senza di me. Dillo a mio padre: somiglio troppo a mia madre”. Ripone il testamento in tasca, compra un biglietto per salire sulla terrazza panoramica dell’Empire State Building, e da lì precipita giù in picchiata.
Il 12 maggio del 1947, unidici giorni dopo il dramma, LIFE diffonde l’immagine di quella morte nota oggi come “Il suicidio più bello”, e benché volere della defunta fosse di sfuggire agli sguardi indiscreti, la sua ultima fotografia diventerà così popolare da influenzare il genio creativo dei grandi artisti: Andy Wharol dedicò allo scatto una delle sue opere più celebri: “Suicide: Fallen Body”. Neppure l’industria fashion resterà indifferente al ritratto, tanto che, ancora oggi, i fotografi chiedono alle modelle di adottare il cosiddetto “effetto Evelyne”, assumendo una posa che insinui il sospetto di una morte apparente.
Lei che temeva di macchiarsi di un abbandono che non avrebbe mai perdonato a se stessa, si è rivelata incapace perfino di lasciare un mondo che continua a trattenerla in un eterno addio.
Evelyn resta lì, sulla soglia della morte, senza mai varcarla del tutto; non smette di scrollare la mano salutando la vita restìa all’idea di voltarle davvero le spalle, come sua madre fece con lei. Sopravvive in un seducente scatto nel quale, ogni cosa, entra in contraddizione con l’altra: il cielo uggioso trasgredisce i dettami della primavera inoltrata; l’espressione di serenità della defunta stride con la disperazione del suicidio; il suo corpo aggraziato trasmette leggerezza, eppure ha appena sfondato le lamiere accartocciate che gli fanno da cuscino.
Tutto ciò tramanda una morale della quale, la fanciulla, non smette di farsi portavoce: nulla è più grave del peso della vita, nonostante esso inganni con la bugia di un’illusoria evanescenza.
Fabrizio Barbuto
Articolo pubblicato su Libero il 2 giugno del 2019