È ancora notte quando varco il cancello che conduce al monastero di Santa Chiara, a Milano, che ospita attualmente 19 suore di clausura, le Clarisse. Alle 5:30 le spose del Signore mi aspettano per partecipare alle lodi mattutine. Visto dall’esterno, circondato dal buio ed avvolto dal silenzio, il severo edificio incute un certo timore. La porta della chiesa è aperta, per accogliere chiunque desideri incontrare Dio. Per ora non si è vista anima viva.

Le fiamme tremolanti dei ceri rendono l’atmosfera tenera e surreale agli occhi di chi è abituato alle luci artificiali. Lascio la chiesetta deserta e mi dirigo verso un altro cancello. Citofono. Una voce celeste risponde: “Pace”.

“Sono Azzurra”, e le porte si spalancano. “Magari fosse così semplice l’accesso anche al Regno dei Cieli!”, penso. Una suora mi parla al di là di un portone di legno scuro, su cui campeggia severa la scritta “clausura”, poi socchiude l’uscio con pudicizia e mi invita a recarmi nella stanzetta attigua, dove trovo una sorella che al di là delle sbarre mi saluta sorridente e mi indica di tornare nella chiesetta perché tra poco inizieranno i canti.

Seguirà poi la messa ed infine, rientrate nell’area in cui le religiose abitano, faremo colazione all’incirca alle ore 8. Mi chiedo come reggerò quasi due ore e mezza di inni e preghiere senza neanche un caffè, ma pregusto l’incontro con le suore senza sbarre, senza divisori né dividendi tra me e loro.

All’interno della chiesa, in cui si è materializzata già qualche anima, mi aspetta una delle Clarisse. Non mi comunica il suo nome, del resto sembra che consideri superflue le presentazioni: non mi pone domande, come se sappia già tutto di me. Tutto è l’essenziale: sono Azzurra e desidero trascorrere una giornata lontana dal caos e dalla frenesia del mondo che gira senza posa dietro quelle sbarre al di qua delle quali, in un altrove ovattato e foderato di gomma, immerse nel silenzio vivono le suore.

Senza internet, senza social-network, senza smartphone, senza cellulari, senza tv, che viene accesa solo per seguire il telegiornale. Senza mai mettere il naso fuori dalla porta. Queste donne sono la prova che si può vivere anche senza quella tecnologia divenuta per tutti pane quotidiano.

La sorella mi parla come se mi conoscesse da sempre, anzi no, come se mi aspettasse davanti a quella porta, a pochi passi dall’altare, senza impazienza dall’eternità. Sorridendo mi consegna i libri, mostrandomi le pagine delle lodi odierne nonché il programma di questa lunga giornata, scandita da canti, preghiere, messa, colazione, letture, altre preghiere, pranzo, inni, meditazioni, ringraziamenti, vespri, poi scompare dietro le inferriate.

Gli uccellini cantano, il sole, che non bacia mai queste religiose, sorge piano e la luce che trapassa le vetrate blu, verdi e gialle, diventa sempre più forte, riverberando quei colori sulle pareti. Finita la messa, a cui hanno preso parte almeno una trentina di persone, fuori è ormai giorno.

Resto delusa quando  raggiungo le sorelle per la colazione: io non posso passare quei cancelli interni al convento che isolano le suore dal resto della realtà per avvicinarle a Dio. Quando una delle Clarisse mi indica la saletta nella quale potrò rifocillarmi da sola, mi sento esclusa e mi rendo conto che anche io faccio parte di quel macrocosmo a cui è severamente vietato l’accesso.

Chissà com’è trascorrere quasi tutta l’esistenza dentro una sorta di galera nella quale tuttavia si sceglie volontariamente di entrare, anzi persino con letizia. Mi domando se quelle maglie di metallo imprigionino le suore oppure le proteggano, se le utilizzino per tenere fuori ciò che è cattivo o per racchiudere ciò che è buono.

Le spose del Signore sono nel mondo, ma nello stesso tempo non ne fanno parte. Tuttavia, lucchetti, portoni, sbarre di metallo, alti cancelli, celle, sembrano non produrre insofferenza nel loro animo, bensì serenità. Sarà forse perché sono loro stesse a custodirne le chiavi?

Il tavolo della colazione è apparecchiato con amore ed eleganza. Non manca nulla. Attraverso una ruota di legno che comunica con la zona riservata le suore mi servono un ricco buffet: tè con limone, caffelatte, panettone, pane, fette biscottate, marmellate. Poi si torna a pregare.

Le religiose si dedicano all’assistenza delle sorelle più anziane, che per il crollo delle vocazioni e per l’allungamento progressivo dell’aspettativa di vita, sono in maggioranza (3 di loro sono alla soglia dei cento anni), alla pulizia dei locali, alla cucina, a lavoretti manuali di vario tipo, come la produzione di candele e di piccoli manufatti in legno o cuoio. Prima del pranzo, altre preghiere in chiesa.

Sembra strano, ma le ore scorrono veloci e non pesano. Il rombo di un motore, il suono di un clacson, il passaggio di un aereo o di un bus sono gli unici rumori, quantunque mitigati dalla distanza, che riescono a penetrare i muri della struttura. Tutto il resto è pace.

Una sorella mi consegna la chiave che apre uno dei cancelli interni che mi consentiranno di introdurmi in una zona in cui potrò rilassarmi. È un gesto di fiducia. Ma delle altre religiose neanche l’ombra. Restano nascoste, fluttuano via come farfalle. Patate al forno, carne arrostita, insalata, maccheroni al pomodoro, mandarini, mele, arance e caffè, costituiscono il menu del pranzo, di cui l’ingrediente fondamentale risulta ancora una volta l’amore.

Dopo il pasto mi è concesso un incontro con una delle sorelle, la più giovane, 43 anni, in clausura da 16. Chiacchieriamo in un parlatorio, lei dal suo mondo, io dal mio, e ci accorgiamo entrambe che non sono poi così distanti. “No, queste sbarre non ci intrappolano, più che una galera sono una cassaforte. Alla fine, ciò che sta fuori riesce a sorpassarle e ad arrivare fino a noi”, mi dice la Clarissa, che ogni tanto può ricevere una visita da parte dei suoi parenti più stretti.

Gelosie, sconforto, rabbia, tristezza, solitudine, preoccupazioni, ansie, paure, delusioni, dubbi, non possono essere evitati costruendo barriere tra il dentro ed il fuori, perché risiedono in noi. “Anche noi discutiamo, ma cerchiamo di contenere i toni. Siamo tutti essere umani!”, esclama la donna, alla quale racconto tutta la mia vita con una facilità di cui non pensavo di essere capace, le confido il vissuto detto mai, le gioie ed i dolori che tenevo sepolti in fondo al cuore e che oggi sono straripati lì, in quella piccola cella, come se da sempre aspettassero questo momento.

La sorella mi ascolta e di tanto intanto interviene, mai per giudicare, come facciamo un po’ tutti. Ella è un’amica. Ed è proprio lì che le nostre posizioni si ribaltano e mi accorgo che, in fondo, molti di noi vivono in una sorta di clausura senza esserne consapevoli. Spesso ci isoliamo dalle cose o dalle persone che ci fanno paura o che potrebbero farci o ci hanno fatto male, le teniamo a distanza.

Qualche volta ci sentiamo colpevoli per questa scelta, ma “non è sbagliato mettere uno spazio tra noi e ciò che ci crea malessere”, mi rassicura la sorella. La clausura non è una punizione né una colpa: è una scelta e come tale può essere messa in discussione. “Ho visto tante sorelle tornare sui propri passi. Intraprendere tale cammino è sempre più difficile, perché fino a qualche decennio fa non c’era tanta differenza tra la vita qui e quella all’esterno.

Oggi si tratta di un cambiamento drastico, non lo fai se non lo vuoi davvero”, mi spiega la sorella, che alla fine del nostro incontro mi abbraccia forte sporgendosi attraverso il muro che ci separa. C’è qualcosa di infantile nei visi delle suore che non deriva dalla mancanza di trucco: è un’armonia che affiora dall’anima. Lo stesso sentimento che mi porto dentro quando alla sera mi lascio il convento alla spalle e mi immergo nel mio mondo, fatto di corse, orari, scadenze, luci, suoni, urla, fregature. C’è chi per rilassarsi si reca alle terme, io consiglio una giornata detox per lo spirito in convento. Non esiste modo migliore per depurarsi.

Articolo pubblicato su Libero il 27 gennaio del 2018

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