Credevamo che l’Italia arrancasse, invece è ferma da un bel pezzo a motori spenti. È da vent’anni che siamo un Paese a crescita zero, impantanato nelle sabbia mobili di una stagnazione economica che si è ulteriormente aggravata con la crisi del 2008 dalla quale stentiamo a tirarci fuori. Negli ultimi due decenni il nostro Pil è lievitato mediamente dello 0,2% ogni anno, l’equivalente di niente, e questo fa della nostra penisola l’unica Nazione dell’area euro, insieme alla Grecia, a non avere ripristinato la situazione ante-crisi, ovvero quella del 2007.
È la CGIA di Mestre a lanciare l’allarme riguardo codesta cristallizzazione, specificando che ci restano da recuperare ancora 4,2 punti percentuali di Pil; 19,2 di investimenti; 5,9 di reddito disponibile delle famiglie e 1,4 di consumi dei nuclei familiari. E la domanda è: chissà se ce la faremo mai?! Inoltre, se da un lato negli ultimi 12 anni c’è stato un positivo aumento degli occupati dell’1,6%; dall’altro è diminuito il livello medio delle retribuzioni, dovuto pure alla diffusione del precariato, ed è incrementata la disoccupazione dell’81%.
In questo quadro desolante non può consolarci apprendere che le esportazioni rispetto al 2007 sono salite del 17,5% (siamo il nono Paese esportatore al mondo), fenomeno che interessa soprattutto le regioni del Centro-Nord. Tutto ciò ha acuito il divario tra Settentrione e Meridione, tanto che parlare di “due Italie” non sarebbe esagerato. Non mancano le ricette alchemiche proposte dalla classe politica per risollevare il Mezzogiorno, come il reddito di cittadinanza grillino, che purtroppo non può operare il miracolo di creare dal nulla posti di lavoro dove la domanda di lavoro è assente. Del resto, tutti i governi degli ultimi 20 anni sono stati incapaci di invertire questa tendenza italiana alla stasi, mentre gli altri membri dell’UE così come gli USA seguitano a progredire.
Insomma, siamo in un pasticcio. L’immobilismo si trasforma in malcontento, sgomento e insofferenza. Quella che manifestano sempre di più gli italiani. In base al 52° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, soltanto il 23% degli italiani (contro una media UE del 30%) ritiene di avere raggiunto una condizione socio-economica migliore di quella dei genitori, il 67% guarda al futuro con paura e incertezza, il 56% sostiene che non sia in atto alcun cambiamento concreto, il 63,6% è certo di dover salvaguardare da solo interessi ed identità propri e nazionali, quota che sale a 71,3% tra chi percepisce redditi molto bassi. Inoltre, il 52% nutre la convinzione che si faccia di più per gli immigrati che per gli italiani. Il 35,6% è pessimista; il 31,3% insicuro.
Il potere di acquisto delle famiglie resta giù del 6,3% rispetto al 2008 ed i giovani laureati hanno sempre più difficoltà a racimolare un impiego. Ne derivano non soltanto rassegnazione ma anche risentimento e rabbia, in particolare verso i partiti tradizionali che si sono progressivamente scollati dal popolo, rintanandosi nei salotti, negli attici del centro delle metropoli, lontanissimi da quelle periferie dove ogni dì il cittadino combatte per conquistare e mantenere un brandello di sicurezza.
Si dice che gli abitanti del Belpaese siano diventati cattivi, razzisti, egoisti, tuttavia sono semplicemente stanchi di questa paralisi e si sentono abbandonati. Essi vengono accusati di soffrire di sovranismo psichico, una sorta di patologia psichiatrica che li indurrebbe a chiudersi sempre più in loro stessi e a pretendere altresì la chiusura delle frontiere statali. Come biasimarli? In un simile clima di recessione, accogliere migliaia di immigrati al mese (dall’inizio di settembre ne sono giunti circa 2000) da mantenere a spese nostre per un tempo indefinito è un lusso che non possiamo permetterci. Per fare beneficienza occorre essere ricchi. O almeno non morire di fame. E da queste parti sono vent’anni che ci trasciniamo.
Articolo pubblicato su Libero il 29 settembre del 2019