Introduzione

È discusso se gli Stati possano realizzare il blocco navale per respingere le migrazioni di massa irregolari per via marittima. La questione è alquanto complessa e si interseca con temi eterogenei, quali:

· la disciplina del mare territoriale e delle acque internazionali;

· le zone di ricerca e soccorso in mare;

· l’immigrazione clandestina;

· la tutela dei diritti umani;

· la legittima difesa preventiva.

Il problema viene esaminato facendo riferimento a un’iniziativa in solitudine dell’Italia. La soluzione sarebbe più semplice qualora le operazioni fossero condotte dalle organizzazioni internazionali (UE e ONU), ma questa ipotesi, essendo allo stato poco realistica, non viene presa in considerazione.

Il blocco navale come atto di guerra

Il blocco navale è un’azione militare diretta a impedire l’entrata o l’uscita delle navi dai porti o dal territorio di uno Stato. Si tratta di un vero e proprio istituto giuridico, contemplato dal diritto bellico marittimo, ammesso (oltre che per legittima difesa) solo in occasione di conflitti armati. In assenza di dichiarazione di guerra «il blocco dei porti o delle coste di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato» è definito come un atto di aggressione, dall’art. 3, lettera c) della Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite 3314 (XXXIX) del 14 dicembre 1974. Il blocco navale è disciplinato dalla Dichiarazione di Parigi del 1856 sui Principi della guerra marittima e dalle Convenzioni di Ginevra sul Diritto umanitario. La Dichiarazione di Londra del 1909 sul diritto della guerra marittima non è mai entrata in vigore, ma i suoi principi sono stati recepiti nell’ordinamento italiano dalla legge di guerra (R.D. 1415/1938). Tali norme prevedono:

1) la preventiva comunicazione alle Nazioni terze non belligeranti della definizione geografica della zona soggetta al blocco stesso;

2) il mantenimento di una Forza aeronavale, di cui possono far parte anche sommergibili, dedicata stabilmente in mare all’applicazione del blocco in modo imparziale nei confronti del naviglio di qualsiasi bandiera;

3) la cattura dei mercantili che abbiano violato il blocco e il deferimento al giudizio amministrativo di un «tribunale delle prede»;

4) l’attacco ai mercantili che tentino di resistere alla cattura;

5) l’esclusione dal blocco dei traffici relativi ai beni di prima necessità come viveri e medicinali e altri aiuti umanitari (art. 54, n. 1 del I Protocollo di Ginevra del 1977 addizionale alle Convenzioni del 1949).

L’attuazione del blocco deve essere effettiva e non discriminatoria nei confronti delle Nazioni non belligeranti.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale lo strumento del blocco navale fu ritenuto non più adeguato, in relazione all’evoluzione degli armamenti che rendono vulnerabile una Forza navale dislocata a distanza ravvicinata dalla costa.

In anni recenti, tuttavia, la prassi del blocco è stata ripresa i contesti militari para-bellici. Nel 2006 Israele, all’indomani dell’attacco mosso dalle milizie di Hezbollah operanti in Libano, aveva decretato il blocco delle acque territoriali del Libano (questo blocco era terminato dopo qualche giorno con il passaggio alla Maritime Task Force a guida italiana del compito di controllare le acque territoriali libanesi, sino alla costituzione della UNIFIL Task Force).

Nel 2011 sempre Israele ha attuato un blocco avanti alle coste di Gaza nell’ambito del conflitto con le milizie palestinesi di Hamas. In questa occasione si è verificato l’episodio della nave Mavi Marmar di bandiera turca, trasportante aiuti alla popolazione palestinese, che aveva tentato di forzare il blocco a circa 60 miglia nautiche dalla costa ed era stata perciò attaccata dalla Marina israeliana. Una commissione d’indagine ONU ha affermato nel 2011 la legalità del blocco pur ritenendolo sproporzionato nelle modalità.

Nel 2015 una coalizione a guida saudita ha imposto il blocco delle coste yemenite avanti al porto di Aden.

Non va confuso con il blocco il contrabbando di guerra. Entrambe sono misure di interferenza con la navigazione neutrale e, ovviamente, con quella nemica. Il primo è volto a impedire tutte le comunicazioni marittime, in ingresso e in uscita dalle coste nemiche nel corso di un conflitto armato e, di regola, dovrebbe svolgersi in prossimità delle acque territoriali nemiche. Il secondo è invece volto a impedire in acque internazionali i rifornimenti al nemico, trasportati da navi neutrali, di determinate categorie di beni destinati allo sforzo bellico. Differente è anche l’embargo navale, sanzione decisa dalle Nazioni Unite, sulla base del capo VII della Carta, nei confronti di paesi che abbiano commesso gravi violazioni della pace e della legalità internazionale. Le operazioni di embargo non comportano il blocco navale delle coste del Paese nei cui confronti sono attuate. Esse legittimano invece l’esercizio di misure coercitive da parte delle navi da guerra dei paesi partecipanti all’operazione nei confronti dei mercantili di qualsiasi bandiera coinvolto in traffici marittimi commerciali con lo Stato sottoposto a embargo.

Simile al blocco navale, ma con alcuni elementi distintivi, è la quarantena marittima. Storica quella proclamata il 23 ottobre 1962 dagli Stati Uniti per impedire il trasporto a Cuba di missili strategici forniti dall’ex Unione Sovietica mediante intercettazione, fermo, visita, 4 ispezione e dirottamento delle navi di qualsiasi bandiera dirette a Cuba, per accertare che non trasportassero carichi vietati.

Le operazioni marittime di contrasto al trasporto illegale di migranti non rientrano nel concetto di blocco navale sinora descritto. Pertanto l’espressione va intesa in senso atecnico, per designare l’attività volta a impedire il passaggio di imbarcazioni cariche di extracomunitari che risultino univocamente dirette a raggiungere il territorio di un altro Stato, in violazione delle norme sull’immigrazione.

Traffico e trasporto illegale di migranti

Il traffico o il trasporto illegale di stranieri è punito gravemente dal T.U. immigrazione, in particolare nell’ipotesi di cui all’art. 12-bis, che prevede un reato universale (punibile, cioè, ovunque commesso). Ciò che interessa è stabilire quali siano i poteri dell’Italia (quale Paese di destinazione) di impedirlo, e quali siano gli obblighi degli Stati costieri dell’Africa (quali Paesi di provenienza) di non consentirlo. La materia è disciplinata dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (UNCLOS).

STATO DI DESTINAZIONE (ITALIA)

Ai sensi dell’art. 2, comma 1: “La sovranità dello Stato costiero si estende, al di là del suo territorio e delle sue acque interne a una fascia adiacente di mare, denominata mare territoriale”.

Ai sensi dell’art. 19:

1. “Il passaggio [nel mare territoriale] è inoffensivo fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero. Tale passaggio deve essere eseguito conformemente alla presente Convenzione e alle altre norme del diritto internazionale.

2. “Il passaggio di una nave straniera è considerato pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero se, nel mare territoriale, la nave è impegnata in una qualsiasi delle seguenti attività: […] g) il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”.

Ai sensi dell’art. 25:

1 “Lo Stato costiero può adottare le misure necessarie per impedire nel suo mare territoriale ogni passaggio che non sia inoffensivo”.

2. “Nel caso di navi dirette verso le acque interne o allo scalo presso installazioni portuali situate al di fuori delle acque interne, lo Stato costiero ha anche il diritto di adottare le misure necessarie per prevenire ogni violazione delle condizioni alle quali è subordinata l’ammissione di tali navi nelle acque interne o a tali scali”.

Ai sensi dell’art. 33, comma 1: “In una zona contigua al suo mare territoriale, denominata «zona contigua», lo Stato costiero può esercitare il controllo necessario al fine di: a) prevenire le violazioni delle proprie leggi e regolamenti doganali, fiscali, sanitari e di immigrazione entro il suo territorio o mare territoriale; b) punire le violazioni delle leggi e regolamenti di cui sopra, commesse nel proprio territorio o mare territoriale”.

Ne discende che lo Stato costiero ha il potere di impedire il transito di una nave straniera che trasporti persone per favorirne l’ingresso nel suo territorio in violazione delle leggi nazionali sull’immigrazione e, a maggior ragione, di impedirne l’ingresso nei porti o nelle acque interne.

È dunque conforme al diritto internazionale l’art. 83 del Codice della navigazione, secondo cui il Ministero dei Trasporti può vietare “per motivi di ordine pubblico, il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale”.

Anche in alto mare lo Stato costiero ha taluni poteri:

– le sue navi sono autorizzate a esercitare il diritto di inseguimento in alto mare nei confronti di una nave che sia sospettata di agevolare l’immigrazione illegale;

– nel caso in cui sia adibita al traffico dei clandestini una nave priva di nazionalità o con bandiera di convenienza, ovvero un’imbarcazione priva, oltre che di bandiera, dei requisiti di navigabilità e di sicurezza, alle navi da guerra spetta il diritto di visita, e, qualora il natante risulti dall’esame delle carte di bordo privo di nazionalità, il potere di accompagnamento in un porto nazionale per ulteriori accertamenti, preordinati all’adozione di provvedimenti giudiziari.

STATO DI TRANSITO (MALTA)

Non esiste una norma internazionale (al di fuori di eventuali accordi stipulati tra gli interessati) che obblighi gli Stati a vietare il transito di una nave che trasporti clandestini nelle proprie acque territoriali e sia diretta verso un altro Stato.

Nel caso dell’Italia Malta suole rifiutare anche l’intervento opposto, cioè quello di assistenza (e conseguente sbarco), in applicazione del principio stabilito dalla Risoluzione MSC.167, secondo cui dovrebbe essere agevolato il raggiungimento da parte dei migranti della destinazione che si proponevano di raggiungere.

STATO DI PROVENIENZA (Tunisia, Libia, Egitto)

Nessuna norma, né consuetudinaria né pattizia, qualifica esplicitamente come illecito internazionale il trasporto illegale di persone effettuato da privati con la tolleranza o addirittura l’aiuto delle Autorità di governo del territorio da cui partono.

Alcuni sostengono che tale attività possa essere definita alla stregua di una tratta di schiavi, ma questa interpretazione non è corretta, poiché la nozione di schiavitù fissata dalla Convenzione di Ginevra del 1956 («stato o condizione di un individuo sul quale si esercitano le prerogative del diritto di proprietà») postula una condizione – la privazione della capacità giuridica e dello stato di libertà – che non si rinviene oggi nel traffico e trasporto di extracomunitari. Tale fenomeno, piuttosto, è caratterizzato da una situazione di inferiorità e dallo sfruttamento dello stato di bisogno dei migranti, che scelgono volontariamente la via dell’ingresso illegale in Europa per cercare condizioni di vita migliori di quelle del Paese d’origine.

Più attendibile è la tesi secondo cui la condotta dello Stato di partenza possa inquadrarsi nella violazione dei diritti umani, ancorché si limiti al mancato intervento, qualora il trasporto sia posto in essere con modalità tali da violare il diritto alla vita dei migranti e il divieto di trattamenti inumani e degradanti.

Il blocco navale come atto di interdizione del trasporto illegale di migranti

Occorre distinguere tre ipotesi, a seconda di dove il blocco debba essere realizzato dallo Stato di destinazione: a) al confine con le proprie acque territoriali;

b) all’interno delle acque territoriali dello Stato di provenienza

c) in alto mare.

Al confine con le proprie acque territoriali

Per quanto osservato al paragrafo precedente, se si sospetta che la nave stia violando le leggi sull’immigrazione, le autorità possono impedire l’accesso nelle acque territoriali. Tale possibilità è di fatto vanificata dall’esistenza – nel fenomeno in esame – di un obbligo di soccorso, contemplato dal diritto internazionale.

Laddove quest’obbligo sussista, è opinione pressoché unanime, in dottrina e giurisprudenza, che esso prevalga sulle disposizioni dirette al contrasto dell’immigrazione clandestina.

Tale prevalenza è anche sancita dalla circolare dell’IMO (international maritime organization), MSC/Circ.896/Rev.112 June 2001 (Interim Measures for Combating Unsafe Practices Associated with the trafficking or Transport of Migrants by Sea).

L’adempimento degli obblighi SAR (ricerca e soccorso) si realizza con lo sbarco in un luogo sicuro (place of safety o P.O.S.), dopo di che subentrano gli obblighi di accoglienza, fino alla definizione dello stato giuridico dei migranti.

La giurisprudenza, sia di merito (la più recente è la sentenza sul caso Gregoretti del giudice per l’udienza preliminare di Catania), che di legittimità (caso Sea Watch, Cass. sez. pen. 6626/2020), ha richiamato l’obbligo di fornire prontamente un porto sicuro. La Corte ha osservato che «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non e più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale»; inoltre «sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative».

Pertanto, si può concludere che il respingimento in presenza degli obblighi SAR sia illegittimo.

All’interno delle acque territoriali dello Stato di provenienza

Il blocco navale nelle acque territoriali di un altro Stato è possibile solo con l’autorizzazione o la collaborazione dello Stato di provenienza del natante. Un precedente è quello del controllo degli espatri clandestini dall’Albania messo in atto dall’Italia, nelle acque territoriali albanesi e nelle acque internazionali del Canale d’Otranto, su richiesta di Tirana sulla base dell’accordo di Roma del 25 marzo 1997 mediante scambio di lettere relativo alla «collaborazione per la prevenzione degli atti illeciti che ledono l’ordine giuridico nei due paesi e l’immediato aiuto umanitario quando è messa a rischio la vita di coloro che tentano di lasciare l’Albania». Questo accordo suscitò polemiche, perché il 27 marzo 1997, in alto mare, si verificò la collisione tra la corvetta italiana Sibilla e la motovedetta albanese Kater I Rades in cui perirono 108 cittadini albanesi Gli Stati costieri dell’Africa, tuttavia, non hanno mai mostrato disponibilità in tal senso, tanto più che, se esistesse una volontà al riguardo, sarebbe più semplice bloccare le partenze.

In alto mare

In assenza di consenso dello Stato costiero di partenza, l’unica ipotesi ragionevole è quella di un blocco operato in acque internazionali, ma in prossimità di detto Stato: più il natante si trova a breve distanza dalla costa da cui è partito e meno è il tempo trascorso dalla partenza, maggiore sarà la probabilità che l’imbarcazione o i suoi passeggeri non versino in quello stato di pericolo che fa scattare l’obbligo di soccorso. Anche questa soluzione, tuttavia, incontra diversi ostacoli:

– in acque internazionali lo Stato non ha una generale potestà d’imperio. Al contrario, il blocco navale realizzato al confine con il territorio dello Stato costiero è, nella sostanza, un respingimento verso il medesimo;

– il respingimento realizzato in un momento così anticipato può porsi in conflitto con il diritto a lasciare qualsiasi paese, enunciato con chiarezza sia dall’art. 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani che dall’art. 12 del Patto sui diritti civili e politici;

– non si deve trascurare il rischio di “incidenti”, legata all’eventualità che la nave carica di migranti cerchi di forzare il blocco. Se questi incidenti avvengono in contesti negoziati (ossia quando vi è consenso dello Stato di partenza), come nel precedente dell’Albania, il rischio di una controversia internazionale è ridotto. Altrimenti possono esservi ritorsioni dello Stato di partenza.

In conclusione il blocco navale, specie se eseguito dall’Italia e non dalla UE, crea una tale serie di problemi e di incertezze che appare difficilmente realizzabile.

Soluzione

Nella pubblica opinione, negli studi degli esperti, nelle valutazioni dei governi europei, si sta facendo strada l’idea di una potenziale ‘minaccia umana’, provocata dall’esodo di milioni di africani verso l’Europa e, in primo luogo, verso l’Italia.

Il mancato contrasto ai movimenti migratori di massa potrebbe portare, in un futuro non lontano, a incoraggiare (involontariamente) tale fenomeno, fino a renderlo incontrollabile e ingestibile.

L’art. 42 della Carta ONU prevede che, in caso di minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione “Se il Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste nell’articolo 41 siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite”. L’art. 51 della Carta fa salvo, negli stessi casi, il diritto di autotutela individuale e collettiva dei singoli Stati. Le norme in questione non sono certamente applicabili all’immigrazione clandestina, ancorché gestita da organizzazioni criminali.

Tuttavia nei casi in cui un’immigrazione di dimensioni tali da mettere a rischio le strutture sociali del Paese di arrivo sia deliberatamente consentita o addirittura incoraggiata dallo Stato di partenza per scopi geopolitici, l’azione di quest’ultimo potrebbe essere inquadrata in base a un’interpretazione estensiva del concetto – quale:

· atto di aggressione;

· atto terroristico.

In particolare se lo scopo perseguito dai governi africani fosse quello di indebolire le istituzioni e le società degli Stati europei o di tenerli sotto ricatto, essi potrebbero essere classificati “Stati canaglia” e legittimare una difesa preventiva, secondo la dottrina Bush, nata dopo gli attentati dell’11 settembre.

La dottrina dell’intervento preventivo:

a) prescinde dall’attualità della minaccia o dall’imminenza di un attacco, ma si riconnette ad elementi di tipo prognostico, quali i collegamenti con gruppi terroristici o la politica di acquisizione di armi da parte di uno Stato, che vengono qualificati come elementi atti a dimostrare di per sé l’esistenza di un pericolo per la sicurezza nazionale;

b) ammette espressamente la possibilità di operare azioni militari a carattere preventivo non solo nei confronti dei gruppi terroristici, ma anche nei confronti di Stati che, per il fatto di sostenere o ospitare sul proprio territorio gruppi terroristici, o per il fatto di possedere armi di distruzione di massa, possano costituire una minaccia per la sicurezza nazionale;

c) rispetto all’azione militare, non pone limiti di carattere funzionale riferiti all’esigenza di respingere l’attacco o rimuovere l’immediatezza del pericolo, ed assume anzi come parametro di riferimento quello, ben diverso, della funzionalità rispetto all’esigenza di eliminare definitivamente la minaccia per la sicurezza nazionale. È chiaro che una simile teoria è adeguata solo al particolare contesto internazionale in cui è stata elaborata, caratterizzata dal rischio di eventi distruttivi di notevoli proporzioni.

La fattispecie può apparire meno grave rispetto a quella dell’attacco terroristico, ma tale differenza sarebbe compensata – nell’ottica della proporzionalità – dalla risposta, che consisterebbe nel semplice blocco delle navi in acque internazionali, ma al limite delle acque territoriali (o, in situazioni eccezionali, anche all’interno). Il respingimento, dunque, si sostanzierebbe in una forma di legittima difesa preventiva, il che consentirebbe di superare gli ostacoli illustrati poc’anzi.

CONCLUSIONI

Il blocco navale, salvo che sia operato dalla UE o non vi sia un consenso degli Stati da cui le imbarcazioni partono, è una misura che può generare la responsabilità internazionale dello Stato che la effettua. Fa eccezione il caso di migrazioni di tale portata da mettere in pericolo la sicurezza e la tenuta sociale dell’Italia, in cui il blocco è ammissibile anche unilateralmente.

GRAZIE A FRANCESCO BELLOMO, già magistrato ordinario e poi consigliere di Stato, direttore del centro di ricerca e formazione “Diritto e Scienza”, PER LA CONSULENZA LEGALE

libro ali di burro

Il primo libro di Azzurra Barbuto
A 10 anni dalla prima edizione, la seconda è ora disponibile su Amazon in tutte le versioni

Acquistalo su Amazon