Ognuno sfrutta quello che ha e Kamala Harris, che non si contraddistingue di certo per brillante dialettica né possiede un carisma particolare, sfrutta il colore della sua pelle e il fatto di essere donna e immigrata, anzi, figlia di migranti. E queste sono, del resto, le stesse ragioni per le quali Joe Biden la scelse come suo vice, allo scopo di rafforzare la propria immagine di difensore delle minoranze e delle donne e di ottenere il consenso dei media nonché della parte estrema della sinistra, impegnata nella guerra ai bianchi, ritenuti razzisti, e al genere maschile, ritenuto tossico e colpevole, e critica verso una democrazia, quella statunitense, che, lungi dall’essere una società aperta come tutti credono, toglierebbe opportunità agli immigrati oltre che agli afroamericani, discriminandoli e ghettizzandoli.

Peccato che Kamala è tutto meno che discriminata, misera, ostacolata da quell’America tanto discriminante, come lei per opportunismo sostiene, che pure l’ha fatta primo vicepresidente donna degli Stati Uniti. Anzi ella ha tratto vantaggio proprio dall’essere quello che è: una donna di colore. Grattata la superficie, tuttavia, si scopre che Harris è una nera bianca, una nera privilegiata, non fa parte di una di quelle famiglie di migranti o di afroamericani che campano alla meno peggio nei ghetti delle metropoli statunitensi, dove il tasso di mortalità per sparatorie, regolamenti di conti, tossicodipendenza è altissimo. In quei quartieri Kamala non ha mai messo piede. E se ne guarda bene.

Quella di Harris è stata un’infanzia/giovinezza tutt’altro che disagiata e la sua biografia non costituisce di certo uno stimolo per le classi nere e le classi povere di immigrati di ogni nazionalità ad indentificarsi con lei. La pigmentazione non basta, come non basta il genere, per convincere l’elettorato.

Quella di Kamala non è una storia di riscatto. Ella è nata infatti in una famiglia benestante, sua madre era una ricercatrice universitaria indiana, venuta alla luce a sua volta all’interno di una alta casta, il padre invece un economista afrogiamaicano, Kamala, che ha studiato e si è formata nella ricca e gioiosa California, non ha subito disparità di trattamento a causa del colore della pelle o in quanto immigrata, ha pienamente goduto di quello che l’America ha da offrire, sebbene, sempre per propaganda politica, si ostini a parlare degli USA in modo critico, come patria di un razzismo incancrenito che si respirerebbe dalle strade fino all’interno delle istituzioni e delle università, facendo l’occhiolino alla sinistra radicale e ben sapendo che la sinistra su questa narrazione (bianchi contro neri, autoctoni contro immigrati) ci marcia.

Ma a chi vuole darla a bere?

Si dice che Kamala piaccia ai democratici, i quali le hanno garantito immediato sostegno. In verità, ai democratici piace che Joe Biden, contro il quale hanno condotto una serrata battaglia allo scopo di costringerlo alle dimissioni, si sia levato di mezzo. È stato lo stato di emergenza, a 107 giorni dalle votazioni, a indurre i democratici a vedere in Harris una specie di salvatrice del Paese e della democrazia contro quello che viene descritto come il possibile avvento del male assoluto, il rischio della deriva illiberale: il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca.

Tutte stronzate. Che Kamala tuttavia ripete facendo eco a Biden. Nell’ultimo intervento, nel pieno della campagna elettorale in cui è stata catapultata, ha detto che bisogna difendere le libertà. Come? Votando a favore di lei, ovvio, e non dell’estremista, il dittatore, il pericoloso Donald, che, qualora fosse preferito, sottolinea Harris, riporterebbe l’America indietro.

Kamala, così come imposto dalla cultura del vittimismo, si pone non soltanto quale difensore della democrazia, ma anche e soprattutto delle donne, delle minoranze etniche, degli immigrati, dei neri, categorie sociali cariche di risentimento, odio e rivendicazioni, in quanto si sentono defraudate storicamente e private di qualcosa che deve essere loro restituito, qualche volta anche a costo di ricorrere alla violenza (come accadde, ad esempio, nell’estate del 2020, durante le proteste del movimento Black Lives Matter), gente da cui pure ella è lontana anni luce. Come è distante in maniera siderale da quelle classi di operai del Midwest, il cui voto è decisivo per la vittoria, che vivono le difficoltà della crisi economica dovuta alla chiusura di industrie e miniere e che hanno sviluppato un senso di malcontento nei riguardi di una sinistra (in particolare quella radicale, rappresentata da Harris) che vedono impegnata strenuamente nelle battaglie vacue e schizofreniche del politicamente corretto. Battaglie che non risolvono la miseria che li affligge.

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