Non è stato un semplice discorso quello tenuto da Giuseppe Conte ieri mattina in aula. È stato piuttosto un monologo teatrale, una evanescente dichiarazione di propositi nonché una stucchevole elencazione di principi ed ovvietà, perfettamente sovrapponibile al concione con cui il 20 agosto scorso ha rassegnato le dimissioni. Con una buona dose di caffeina sparata endovena sarebbe stato tutto sommato un sermone sopportabile, nonostante la ridondanza, se solo l’autore non si fosse dilungato tanto nell’enunciazione di concetti triti e ritriti che messi insieme costituiscono la somma della vana retorica, quella di cui l’avvocato del popolo è alto rappresentante.
Al sessantaduesimo minuto, quando oramai stavamo per addormentarci davanti allo schermo, ecco che il neo presidente del Consiglio succeduto a se stesso ha tirato fuori l’argomento più spinoso, quello dribblato fino alle battute finali: la questione immigrazione. “L’epocale fenomeno migratorio va gestito con rigore e responsabilità, perseguendo una politica modulata su più livelli, basata su un approccio non più emergenziale, bensì strutturale”, ha dichiarato il premier senza chiarire agli italiani se intenda o meno, ora che governa con il Pd, spalancare le frontiere ed accogliere tutta l’Africa.
Giuseppi è un maestro nell’arte di ammantare di uno spesso strato di intransigenza e perentorietà le idee che egli stesso non ha. Parla di tutto senza dire niente, spaziando dal cambiamento climatico alla necessità che tutti paghino le tasse. Cerca di confondere il pubblico che inerme lo ascolta come faceva il dottor Azzeccagarbugli con Renzo ne “I promessi sposi”, sperando che dopo oltre un’ora di dotta elucubrazione nessuno si accorga della assoluta inconsistenza del suo programma (non pervenuto) e della sua persona.
Avremmo preferito la presentazione di cinque o sei obiettivi-chiave del novello esecutivo, invece ci ritroviamo sommersi di “occorre”, “è opportuno”, “serve”, “sarebbe utile”, “auspichiamo”. Insomma, più che l’orazione di un premier che si accinge a chiedere la fiducia le chiacchiere del foggiano sembravano l’ultimo appello di una candidata miss nazionale prima del televoto: “Sogno la pace nel mondo”. Del resto si sa che Conte mira ad incantare. Non gli interessa conquistare le volgari masse, egli punta ai cuori dei potenti. Ed alla Camera sottolinea il suo rapporto privilegiato con Ursula von der Leyen, relazione che lo fa “ben sperare”.
È proprio questo tratto a distinguere nettamente Giuseppi dal suo acerrimo nemico Matteo Salvini: il primo cerca il plauso dei Capi di Stato e di governo non soltanto europei; il secondo invece il plauso della gente comune, quella che ieri si trovava fuori da Montecitorio e che urlava a squarciagola “elezioni, elezioni” mentre Conte ciarlava e ciarlava, incurante di ciò che accadeva fuori dal palazzo e del fatto che gli italiani non lo hanno mai votato e, se solo ne avessero l’opportunità, mai lo voterebbero. Tuttavia, il professore ritiene che sia necessario sollecitare la fiducia dei cittadini, nonché avvicinarli alle istituzioni (già ieri erano vicinissimi, proprio a due passi, in piazza). E, ancora una volta, non spiega come. Di sicuro questa non sembra una buona partenza: insediarsi con una massiccia manifestazione di protesta a pochi metri. Di solito, questo accade ai politici alla fine del loro percorso, non all’inizio. Cosa che ci fa credere che Conte sia giunto già alla frutta, ma che non lo sappia. O che finga di non saperlo.
Il premier parla a più riprese di “coraggio” e “determinazione”, quello che – a suo dire – avrebbero dimostrato di possedere coloro che hanno sostenuto la nascita dell’esecutivo giallorosso, “mettendo da parte pregiudizi che in politica sono ineliminabili nonché tipici di chi guarda al passato”. Invece noi, che siamo malpensanti, sospettavamo che pentastellati e democratici, i quali fino all’altro ieri si detestavano, si siano messi insieme non per coraggio, bensì per paura, quella di perdere la poltrona andando alle urne che li avrebbero decimati.
Allorché viene contestato con i fischi, spocchioso come nessun altro Giuseppi risponde: “Fatemi finire, poi applaudite”. Ci siamo chiesti per un attimo se lo avesse detto davvero. Ebbene sì, lo ha fatto.
“Inizia la stagione del rilancio e della speranza”, ha annunciato Giuseppi. Del rilancio di pomodori ed uova marce. E della speranza, che è l’ultima a morire, di mantenere il sedere sullo scranno il più a lungo, ma proprio il più a lungo possibile.
Buona fortuna.
Articolo pubblicato su Libero il 10 settembre del 2019