Mentre si consuma l’inutile e tedioso dibattito su chi abbia vinto e chi abbia perso le elezioni (come se i dati non fossero sufficienti per stabilirlo), un elemento su cui andrebbero puntati i riflettori seguita a venire ostinatamente ignorato: le vere sconfitte di questa tornata elettorale sono ancora una volta le donne, che di fatto risultano quasi del tutto escluse da alcuni consessi.

Accade, ad esempio, in Liguria, dove neppure l’introduzione della doppia preferenza di genere, avvenuta quest’anno, ha prodotto un incremento del numero dei rappresentanti di genere femminile. Se nel 2015 le elette nel Consiglio regionale erano state 5 su 40 seggi, questa volta sono solamente 3: l’assessore uscente Ilaria Cavo, la quale è la donna più votata in Liguria con 7.587 preferenze, la consigliera uscente Lilli Lauro (4.920 consensi) e la giovane ricercatrice Selena Candia (1.210 voti). Anziché progredire, regrediamo. E dal lato opposto della penisola le cose non vanno mica tanto meglio, segno che le signore, nonostante siano una componente fondamentale della società e generalmente siano più istruite degli uomini, come attestano le statistiche, da Nord a Sud ancora oggi incontrano difficoltà a farsi strada in determinati ambiti professionali che sono stati a lungo considerati prettamente maschili.

In Puglia su 50 seggi disponibili sono 8 le elette in Consiglio regionale: Anita Maurodinoia, Lucia Parchitelli, Teresa Cicolella, Teresa Cicolella, Debora Ciliento, Loredana Capone, tutte del Pd, e Antonella Laricchia, Rosa Barone e Grazia Di Bari del M5s. Certo, nel 2015 gli scranni conquistati da esponenti del gentil sesso erano stati ancora meno, ossia 5, eppure il risultato è scarso e deludente anche a questo giro. L’introduzione in extremis per decreto della doppia preferenza di genere non è servita a niente. In Veneto si registra un progresso: le elette passano da 10 a 17. In Toscana sono 16. Ma in Campania 9 su 50. Nelle Marche, infine, 8 su 30.

Insomma, pur costituendo oltre la metà della popolazione, le donne in Italia occupano solamente un terzo delle cariche politiche nazionali e meno di un quinto di quelle locali. I politici non fanno altro che ciarlare di parità, eppure questa, soprattutto nell’ambito istituzionale, appare un miraggio, stando alle evidenze. Le quote di genere, reintrodotte nel 2012 a livello nazionale, non hanno risolto la questione, in quanto sopravvive una sorta di pregiudizio nei confronti del sesso femminile pure da parte dell’elettorato. Le quote rosa potrebbero addirittura essere controproducenti in quanto potrebbero indurre gli elettori a guardare alle donne nell’agone politico quasi come ad una minoranza da salvaguardare e bisognosa di essere patrocinata.

Sarà forse per una sorta di riluttanza generale all’idea di affidare responsabilità politiche ad un soggetto di sesso femminile che la scelta del leader leghista Matteo Salvini di candidare alla presidenza della Regione Emilia Romagna e alla presidenza della Regione Toscana due donne non è stata vincente? Ciò è possibile, sebbene occorra ammettere che sia Lucia Borgonzoni che Susanna Ceccardi, tutt’altro che sprovvedute, abbiano riscosso un ampio consenso in territori tutt’altro che facili, considerati inespugnabili fortini rossi. E cosa dire poi del clamoroso successo di Giorgia Meloni? La leader di Fratelli d’Italia ha portato il suo partito nell’olimpo dei tre più votati.

La problematica della rappresentanza femminile non si può ridurre solo alla quantità delle poltrone occupate, che pure abbiamo visto esigua rispetto ai numeri della componente maschile, ma riguarda altresì la rilevanza delle nomine e dei ruoli assegnati. Mantenendoci sempre a livello regionale, è indicativo che abbiamo avuto pochissime donne a capo delle venti Regioni italiane. Attualmente, sono soltanto due: alla guida della Regione Calabria c’è l’azzurra Jole Santelli e della Regione Umbria Donatella Tesei, sempre del centrodestra. Gli altri presidenti indossano tutti i pantaloni. A livello nazionale prevale all’interno delle istituzioni una tendenza ad escludere le signore. Lo ha fatto pure il premier Giuseppe Conte, il quale la scorsa primavera ha creato dal nulla una quindicina di task-force formate da circa 500 esperti con il compito di fornire pareri e suggerimenti al governo. Tra di loro neppure una donna. Anche il sempre tirato in ballo comitato tecnico-scientifico per l’emergenza sanitaria è composto da soli uomini. Persino il coronavirus è stata l’ennesima buona occasione per amplificare la disparità di genere, precludendo alle signore l’esercizio di un loro sacrosanto diritto, ossia quello di partecipare ai processi decisionali proprio come da sempre fanno i signori, e alla società intera la possibilità di beneficiare dell’indispensabile contributo femminile.

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