Gli immigrati portano malattie. Non è un’opinione né una supposizione né una presunzione, bensì un dato di fatto inconfutabile. Ed è così da sempre. Anche noi europei, subito dopo la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo , avvenuta nel 1492, importammo – nostro malgrado – nei nuovi territori micidiali epidemie di colera, morbillo, vaiolo, scarlattina, febbre gialla, influenza, peste bubbonica, tubercolosi, orecchioni, pleurite, dissenteria, malaria, che decimarono le popolazioni locali, portandole persino all’estinzione. Alla fine del diciassettesimo secolo quasi il 100% degli autoctoni erano scomparsi.

Insomma, un vero e proprio genocidio, tra le cui cause non vi furono solo le guerre, la rimozione forzata degli indigeni dai loro territori, il cambiamento nello stile di vita, i lavori forzati, ma anche e soprattutto le malattie importate, contro cui i nativi non avevano difese immunitarie ed anticorpi specifici e che uccisero milioni di indiani.

Gli europei, esattamente come gli immigrati oggi, non portarono queste patologie in modo consapevole nel Nuovo Mondo, dove esse erano inesistenti.

“La verità non è razzista. Tutti i fenomeni migratori, sia di esseri umani che di animali, determinano da sempre il rischio di diffusione di malattie nuove, o già debellate. È una riflessione lapalissiana. Si tratta di ovvietà, che non andrebbero neanche specificate, ma sulle quali, tuttavia, ci stiamo ammazzando. Purtroppo, quando c’è la politica, si afferma un uso strumentale del vero”, commenta Glauco Morabito, sociologo delle istituzione politiche e giuridiche.

Il progresso scientifico, i vaccini, le migliori condizioni igieniche del mondo contemporaneo hanno reso meno devastanti i grandi spostamenti di massa da un continente all’altro, tuttavia i rischi connessi all’immigrazione esistono ancora ed esserne consapevoli non vuol dire essere razzisti, ma semplicemente tutelare la salute pubblica nel rispetto di chi arriva sul nostro territorio e anche di noi stessi, che qui siamo nati e viviamo.

Sono numerosi gli Stati della comunità internazionale che adottano una serie di misure preventive per contrastare la diffusione di virus provenienti da altri Paesi del mondo. Eppure tali misure non sono state sufficienti per contenere il contagio da coronavirus, entrato da porti e aeroporti.

Nel 2014 l’Australia sospese il programma di immigrazione, incluso quello umanitario, per prevenire l’arrivo e la diffusione del virus Ebola all’interno dei suoi confini. Venne sospeso il rilascio dei visti per chi proveniva dalla Sierra Leone, dalla Liberia e dalla Guinea e venne inoltre stabilito un periodo di 21 giorni da trascorrere in quarantena per coloro che giungevano dall’Africa occidentale ed erano già in possesso di un visto permanente. Dopo l’Australia anche il Canada decise di sospendere il rilascio dei visti ai cittadini dei Paesi dell’Africa occidentale nonché alle persone che vi avevano soggiornato negli ultimi tre mesi.

In Italia, invece, non sono previsti controlli particolari, al di là di quelli routinari, per gli immigrati che giungono anche clandestinamente sul nostro territorio da zone in cui virus altamente pericolosi, debellati da secoli o da decenni nel nostro Paese, sono diffusi su larga scala. E persino oggi che è in corso una pandemia chi proviene dalle zone a rischio è libero di violare la quarantena e andarsene a zonzo, cosa che accade quotidianamente.

Qui non esistono confini fisici né astratti. Può arrivare di tutto. Nel 2017 una bambina di soli 4 anni, che non si era mai recata nelle località tropicali in cui imperversa il virus della malaria, è morta di questa malattia, presumibilmente contratta nei giorni in cui la piccola era ricoverata nel reparto di pediatria di un ospedale di Trento in cui si trovavano due bimbi malati di malaria appena atterrati in Italia dal Burkina Faso.

Il progresso medico-scientifico non è sufficiente per proteggerci. Occorre anche il senso di responsabilità verso una collettività che, nonostante la diffusione dei vaccini e delle cure mediche, come i nativi americani diversi secoli fa, resta ancora vulnerabile davanti a quegli agenti patogeni che arrivano da lontano e dei quali ci eravamo scordati o che ancora non conosciamo.

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