Brutt’affare, la timidezza. Dopo il peccato originale, è l’elemento col quale tutti gli uomini devono fare i conti dal primo all’ultimo giorno. Si ha un bel dire che certi non sanno neppure che cosa sia, ma gratta gratta l’aggressivo, lo sfrontato e l’invadente salta fuori il timido. Senza eccezione. Secondo teorie psicologiche, sembra addirittura che i più dotati di artigli siano ex colombe divenuti falchi per una semplice ragione di sopravvivenza. E anche chi non riesce a spogliarsi il bello dell’agnellino, spera sempre in un giorno da leone.
Ma perché l’uomo è fondamentalmente timido?
In origine, dicono gli evoluzionisti, lo era per consapevole mancanza di forza: come metteva il naso fuori dalla grotta, c’era qualcuno pronto a mangiarglielo, per cui la cautela era d’obbligo. Per prudenza divenne bipede: il busto eretto favorisce rapide ispezioni a 360 gradi e evita il torcicollo. Il primitivo era l’abitante più braccato della foresta: denti inoffensivi, unghie fragili, velocità moderata. Se non fosse stato timido sarebbe scomparso dalla faccia della terra sbranato da chiunque.
La timidezza fu la sua fortuna. Non potendo andare in giro a fare lo spaccone, si sedette e cominciò a lavorare di fantasia, di cervello. Causa la sedentarietà, quasi tutti i muscoli gli si atrofizzarono ma nel cranio, con tutte le rotelle sempre in movimento e ben lubrificate dai pensieri fluenti, avvenne il miracolo. Il suo cervello diventò un cervellone. Da quel momento, con buona pace degli ecologi di ritorno, per i nemici dell’uomo fu un disastro. Se la teoria è esatta, vuol dire che il mondo è dei timidi.
Sono i più riflessivi, i più intelligenti, nuotano sott’acqua, camminano in punta di piedi, sanno muoversi nell’ombra, sono conquistatori spesso silenziosi, sempre implacabili. Oggi il timido, non avendo più leoni e affini da sconfiggere, ripiega sul vicino di casa, sul collega, sul concorrente. Ne studia le mosse, ne scopre i punti deboli, affila le armi. E al momento giusto, colpisce.
Occhio all’introverso, come ti volti, sei fritto. In termini calcistici, egli applica la regola del catenaccio: difesa ad oltranza e contropiede bruciante. Prende un sacco di botte, ma vince uno a zero. La medaglia però ha un rovescio: quanta fatica per segnare quell’unico gol. Notti in bianco, calcoli, macerazione. E poi, parliamoci chiaro: il timido di razza vive nel terrore, costantemente sospettoso, vede insidie dappertutto, teme un agguato dietro ogni angolo. È sfuggente, non ama le compagnie e, al tempo stesso, si duole di non averne, soffre di solitudine ma evita il gregge nel quale si sente a disagio. È costretto a recitare, a inventarsi un personaggio per ogni situazione.
Anche camminare, per lui, può essere un problema: se si sente osservato, la sua incertezza è così acuta da impedirgli un minimo di disinvoltura persino nella respirazione. Non parliamo poi delle mani, non sa letteralmente dove metterle, gli paiono ingombranti, nei momenti topici gli danno fastidio: in tasca non è educazione, le braccia conserte, altrimenti dette incrociate, hanno un chiaro significato sindacale, dietro la schiena è come nascondere qualcosa, i palmi sui fianchi richiamano immagini di lavatoio pubblico, le dita nel naso non sta bene.
In fondo perché si fuma? Pipa, sigaro e sigaretta servono a dare un senso di utilità alle mani dei timidi. I quali anche seduti sono in difficoltà. Angosciati, si chiedono: ma sarà sconveniente accavallare le gambe? E la schiena, si appoggia o no allo schienale?
I più furbi, invecchiando, imparano a togliersi l’imbarazzo dandosi un cliché oppure schivando con cura tutte le situazioni nuovi che possano rivelare pieghe imprevedibili. In ogni campo, la carriera del timido è sfiancante: a scuola deve studiare il doppio degli altri per rendere almeno la metà nelle interrogazioni. Durante le quali, spesso cade in stato confusionale. Al minimo intoppo una vampata di calore gli sale dalle ginocchia fin su, alla faccia e alla testa, vuoti di memoria, le idee spariscono, la luce dell’intelletto si spegne per corto circuito.
Ho visto gente in crisi di timidezza, ridursi all’incapacità di sillabare il proprio nome. Il professore: ma tuo padre come si chiama? Fu Giuseppe. E tua madre? Non c’è male grazie. Nella femmina la timidezza è equipollente al candore, fa tenerezza; ma nel maschio fa ridere, e anche peggio. Tutte le volte che aggancia una ragazza, gli si propone il problema del momento giusto in cui baciarla, e spesso gliela bacia un altro. Delusioni, scoramenti, vendette tremende. Per lui è tutto maledettamente complicato. Anche nel lavoro non trova mai una misura, se c’è da buttarsi si tira indietro, quando si tratta di battere in ritirata è l’ultimo a girare i tacchi.
Se il direttore, improvvisamente, lo convoca, il suo pensiero è il seguente: ecco si è accorto che sono un cretino, adesso mi caccia. Se gli fanno un complimento cerca di cambiare discorso, ma basta una critica, anzi, uno sguardo non espressamente benevolo, per indurlo ai propositi suicidi. Ma più il timido è “debole di pelle” maggiori sono le risorse. Ha sette vite come i gatti, ogni sconfitta ha una lezione, l’abitudine a coabitare con la sofferenza lo rende, alla fine, vaccinato contro tutti i nemici, veri e presunti.
Dall’eccesso di sensibilità passa direttamente al cinismo più inossidabile. E a questo punto, anche se è buono a nulla – come diceva Longanesi – è capace di tutto. Un piccolo sgarbo, attraverso il filtro deformante della timidezza viene proiettato come uno sfregio, e scattano mille meccanismi di rivalsa che possono produrre qualsiasi genere di reazione.
Il timido va in “tilt” facilmente fin tanto che non ha imparato a calibrare quelli che li considera degli avversari, ma una volta ottenuto l’adattamento al campo di battaglia, la sua incertezza si trasforma in lucidità e freddezza e audacia. Diventa uno stratega imbattibile, attento, aggressivo, scaltrissimo. Oppure, se è di temperamento misogino, si chiude in se stesso e, nel gelido distacco delle cose, coltiva la propria intelligenza, traendo soddisfazioni esclusivamente dall’introspezione e dalla speculazione intellettuale.
La storia è ricca di pagine orrende e meravigliose scritte dai timidi. Anche se una classificazione di questo genere manca, si sa che Giulio Cesare, Attila, Napoleone, Stalin e Hitler facevano parte della categoria, così come Dante, Leonardo, San Francesco, Einstein, Gandhi, Roosevelt, Garcia Lorca e Churchill. Tutti inclini al rossore facciale. Ma nel gruppo c’è chi ne aveva ben donde.
VITTORIO FELTRI