A vedere certe cose passa l’appetito”, osserva non senza un’amara ilarità l’infermiera del 118 foderata nella sua tuta rosso sgargiante. Scarlatto è anche il sangue schizzato sul pavimento verde acqua dell’anticamera del pronto soccorso. E c’è anche un fazzoletto buttato lì chissà da chi, intriso di sostanza ematica. Nel corridoio attiguo dorme su una barella un senzatetto, incurante di quel viavai incessante di medici, infermieri, carabinieri, operatori della vigilanza.
Ha il volto annerito dalla sporcizia, la barba ed i capelli sembrano grovigli di paglia secca e polverosa. Poco fa, sempre restando supino, ha tirato fuori il suo arnese e ha pisciato sul pavimento. Ad occhi chiusi. “Questo la prossima volta le prende. Ancora non si è tolto il vizio”, garantisce un operatore. Più che di un vizio, si tratta di un’abitudine. Quando non hai una casa, non hai un letto, non hai un bagno, la fai dove ti capita, perché tutto si trasforma in cuccia, in giaciglio, in cesso. Persino il corridoio di un ospedale. “Se più tardi le barelle non dovessero essere sufficienti, saremo costretti a svegliarlo e mandarlo via”, mi dice qualcuno. Davanti allo sportello dell’accettazione ci sono altre lettighe. Un uomo ha il naso spaccato, un altro perde sangue dalla testa, un altro ancora ha la guancia sinistra sfregiata. La causa è sempre quella: bottigliate. Ordinaria amministrazione. Tutti i giorni dell’anno. Non è ancora mezzanotte dell’ultimo dì di dicembre e l’atmosfera al pronto soccorso dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano, nonostante tutto, appare calma. Il peggio arriva insieme al nuovo anno.
E già si sa. Già ci si prepara alla tempesta. Intanto una ragazza sta per inaugurare il nuovo corso con una bella lavanda gastrica. Ha ingerito sonniferi. “Ma senza nessuna intenzione di uccidersi, è evidente. Quando ti vuoi ammazzare davvero, non ti limiti a qualche pillolina”, commenta un medico. L’ennesima litigata con la mamma, il terrore del futuro che avanza, con la sua nebulosa, impenetrabile incertezza, è già alla porta. Le gambe tremano. A qualcuno viene in mente di non farsi trovare. Forse ha avuto paura anche la quindicenne che è stata trasportata in pediatria, così ha deciso di inzupparla e poi affogarla nell’alcol, fino a non capire più niente. Gli amici l’hanno mollata davanti all’ospedale, come fosse un pacco da scaricare. Una fanciulla si è precipitata giù dalla macchina con lei.
Ora aspetta notizie da parte dei dottori nella saletta esterna, con gli occhi pieni di lacrime. Arriva il padre dell’adolescente ricoverata. Urla. A passi pesanti irrompe all’interno della struttura, si dirige rumoroso in fondo, verso la pediatria. E poi si sente il pianto straziato di una bimbetta che stanotte ha giocato ad essere già donna. Sono i lamenti più acuti che risuonano nel reparto: “Tu sei mio padre, tu sei mio padre, ti prego”, supplica la quindicenne un po’ di comprensione e di clemenza. Il papà non inveisce più. Ma non si cheta. Vede la figlia in quello stato, con i vestiti sporchi di vomito, il viso giallo, i jeans abbassati. Allora si rivolge all’amica: “Chi sono questi bastardi? Voglio sapere i nomi? Dove li avete conosciuti? Insomma, si può sapere?”. Ma nessuna di queste domande ottiene risposta. “Sono amici.
Hanno provato anche loro a strapparle la bottiglia dalle mani”, si difende con il cuore palpitante come un uccellino finito nella trappola la ragazzina. “La metta a letto e la faccia dormire. Domani avrà una forte emicrania, ma è transitoria. Come quel colorito”, raccomanda la dottoressa al padre. E vanno via. E altri giungono.
Qui è passata ora la mezzanotte ma non se ne è accorto nessuno. Si odono botti lontani, al di là dei vetri e dei muri pallidi e sfiniti. Ma non sono altro che l’annuncio di ciò che tra qualche minuto varcherà codesta soglia. Un anziano e malandato signore tira fuori una bottiglietta di champagne. E sorride. La sua famiglia lo ha lasciato qui alle ore 21. “Dove sono i suoi?”, gli chiedo. “Festeggiano. Ma sono stato io a dirgli di andare a casa, perché tanto io sono abituato a stare qui. Anche i medici mi conoscono”, risponde l’ottantenne con un filo di voce. È attaccato alla bomboletta dell’ossigeno e due tubicini gli invadono le narici. “Sto pagando tutti i miei errori”, sussurra, con lo sguardo rivolto verso il soffitto. Gli occhi si fanno lucidi, le lacrime scintillano ma non vengono giù. Sono l’unica cosa che brilla in tutta la sala. “A volte sono stanco di vivere così. Mi fa male anche il ginocchio”, aggiunge. E poi silenzio. Un medico gli porge un sorso di vino. Lui sorride e chiede: “Posso?”. Sembra un bambino. Poi lo portano al piano inferiore per una lastra ai polmoni. “Do you speak english?”, mi chiede una giovane. Viene da Mosca, è bionda e agghindata di tutto punto, pronta per una serata di baldoria. Invece è finita qui con la sua migliore amica, che avverte terribili dolori alla pancia. Le ragazze navigano sui social, guardano le foto degli amici che negli stessi istanti si divertono, e ridono, e ballano. Mentre loro sono in vacanza, a Milano, sì, ma dentro un ospedale con una flebo attaccata al braccio e tanto disorientamento.

Intanto sono già arrivate le prime vittime dei botti di capodanno. Un ventenne, probabilmente di origine africana, ha rischiato di perdere la vista. Dentro un locale dei tizi gli hanno lanciato addosso dei petardi. Ha avuto la prontezza di proteggere lo sguardo, per fortuna! L’occhio sinistro è malandato. Perde sangue. Ha la pelle bruciata. I carabinieri lo interrogano. Il giovane dichiara di non conoscere i nomi dei suoi assalitori. Tuttavia è strano perché, solo pochi minuti prima che arrivassero gli agenti, un amico o un parente che lo accompagnava ha gridato: “Giuro che ora lo ammazzo e vado in galera”. Poi è corso via. Il sangue fa altro sangue ed intasa i pronto soccorso di tutta Italia. Soprattutto questa maledetta notte. Qui tutti indossano qualcosa di rosso. Il sangue proprio. O altrui. Un altro giovanotto, forse di origine egiziana, si è ustionato tutta la fronte. Un petardo gli è esploso in faccia mentre lo accendeva. Sua madre è con lui. Lo osserva affranta e mesta.

C’è chi ha avuto reazioni allergiche ai cibi, chi ha un mal di testa insopportabile, come la donna a cui stanno per fare una tac, chi si è rotto una caviglia, come l’anziana che passerà all’alba in ortopedia, chi pretende subito esami approfonditi perché ha uno strano prurito, e poi si incazza quando il medico lo rassicura: “Lei non ha un bel niente”. E poi tanti pensionati che dormono nei corridoi, poiché non c’è più spazio in degenza. Tutti sono soli. E abituati ad esserlo. Il pronto soccorso è metà purgatorio e metà inferno. E puzza di disinfettante, sangue, vomito, paura.

Adesso l’ottantenne è tornato nel reparto. Se ne sta accasciato sulla sedia. E ha lo sguardo perso non in ciò che sarà ma in ciò che è stato. Ricordi sbiaditi. Lontanissimi. Sorride. “Il medico dice che posso andare a casa”, riferisce. “I suoi figli vengono a prenderla?”. “No, no. Stanno festeggiando. Io ho voluto così. Chiamo un taxi”. Lo aiutano a vestirsi e lo scortano fino all’uscita. Insieme alla sua bombola di ossigeno. Il buio è ancora pesto.

Centinaia di vite contorte e di storie si incrociano e si intersecano per un attimo in una notte, in questo piccolo spazio sterile. Eppure un filo rosso lega ognuna di queste persone, a dispetto dell’età, del genere, della nazionalità. Il denominatore comune è la solitudine. Che nello stomaco si fa sentire più fredda, come una lama, quando tutto il resto del mondo è in festa. O finge di esserlo. Almeno per una sera. Fino alla prossima alba.

Articolo pubblicato su Libero del 2 gennaio 2019

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