Si tratta di un’equazione matematica, incontrovertibile: a più sbarchi corrispondono più morti. Ecco qualche dato. Quasi 20 mila sono gli esseri umani morti nel Mediterraneo dal primo gennaio del 2015 al 13 dicembre del 2018. Alcuni cadaveri sono stati recuperati, i più non sono mai stati restituiti dalle acque ingorde di questo mare monstrum.
A dispetto di quanto sostengono i buonisti, l’anno che ha prodotto più vittime è stato il 2016 (7,523), quello in cui le navi delle Ong sostavano davanti alle coste libiche, al confine con le acque territoriali, pronte a raccogliere gli immigrati dai gommoni per scaricarli sul suolo italiano, lavandosene le mani e facendoci pure la morale. Chiaro indice del fatto che più ne mettiamo in salvo, più ne partono, più ne muoiono.
Bambini, neonati, donne incinte, uomini, ragazzi, ragazzine, madri, padri, fratelli, figli, diventati mangime per i pesci che abitano questo mare di morti e di disperazione, che si sono dimostrati famelici come piranha e poco schizzinosi nel divorare carne umana. “I pesci ci aggredivano da tutte le parti. Erano piccoli ma ci mordevano e ci strappavano pelle e carne. Non solo a noi cinque che eravamo ancora vivi, ma mordevano anche i cadaveri, i corpi degli otto bambini annegati con tutti gli altri. Una scena da incubo, terribile”, aveva raccontato Murath, clandestino tunisino, allora ventiquattrenne, al quotidiano Repubblica nel marzo del 2011.Anche i medici che lo avevano visitato a Lampedusa avevano confermato che le ferite sul corpo del ragazzo erano morsi di pesce.
“Siamo in un mare di guai”, esordisce Fabio Micalizzi, presidente della Federazione Armatori siciliani e componente del consiglio direttivo nazionale dell’Associazione Pescatori Marittimi Professionali, il quale esclude che i pesci del nostro mare si possano cibare di cadaveri. “Il nostro pesce è sano ed è il migliore in assoluto, viene sottoposto a numerosi controlli e verifiche una volta giunto sulla terraferma. Bisognerebbe preoccuparsi piuttosto per quell’80% di pesce che arriva sulle nostre tavole in aereo dall’estero e che è di dubbia provenienza”, spiega Micalizzi.
Il problema è un altro: “A chi esercita l’attività con le reti capita di imbattersi in resti umani, quali braccia, mani, gambe, piedi. Si tratta di un’esperienza terribile, che ci devasta. Noi pescatori sappiamo bene cosa voglia dire morire in mare”.
In questi casi, piuttosto che avvertire le autorità, i pescatori scelgono di tagliare le reti, sebbene molto costose e realizzate su misura, e cambiare zona di pesca. Il danno è enorme: “Si può compromette l’intera stagione di pesca e tali episodi incidono almeno sul 30% del fatturato”.
“Purtroppo dobbiamo lavorare, altrimenti non mangiamo. Siamo già penalizzati dalle politiche europee che ci stanno portando all’estinzione, dal momento che sono studiate per favorire i grossi armatori e non tutelano la piccola e media impresa del settore”, commenta Micalizzi. “Il Mediterraneo è diventato un mare pericoloso. Noi vediamo i trafficanti, i pirati armati, notiamo tutto, ma siamo spaventati. Potremmo essere gli occhi del governo italiano in mare, contribuire alla sicurezza del nostro Paese, ma se dobbiamo rischiare, preferiamo girarci dall’altro lato, sebbene a malincuore. A qualche pescatore è successo persino di essere sparato dalle autorità libiche o egiziane. Capita”, continua il presidente.
Al fine di contribuire alla vigilanza delle coste e alla pulizia delle acque, i pescatori marittimi professionali hanno proposto al governo italiano di allungare i tempi di fermo pesca biologico e, dietro un giusto compenso, di affidare loro il compito di provvedere ad una raccolta dei rifiuti del mare, che sono aumentati negli ultimi anni soprattutto a causa delle continue migrazioni e che stanno mettendo a rischio la sopravvivenza di numerose specie.
Eppure di tutto questo nessuno vuole parlare. Nessuno vuole ammettere che il Mediterraneo è un mare di cadaveri e di relitti di gommoni ed imbarcazioni utilizzati dai trafficanti. “Quando si parla di morti in mare nei tentativi di migrazione dalla costa nordafricana all’Europa, i numeri sono indefiniti. Per ricostruirli ci si basa sulle testimonianze dei rari sopravvissuti, quando questi ci sono”, spiega Vincenzo Cotroneo, ricercatore del Centro di Documentazione Scientifica sull’Intelligence dell’Università della Calabria.
“I corpi di solito vengono abbandonati in mare e da quel momento il cadavere segue un percorso di eventi che lo porta ad incrociare chi il Mediterraneo lo vive non per fuggire, ma per lavorare, ossia i pescatori”, continua Cotroneo.
A quanto ci racconta il docente, già nel 2015 i pescatori siciliani hanno più volte denunciato di essersi imbattuti in resti umani, chiaramente consumati sia dai pesci che dalla lunga permanenza in acqua, o in cadaveri di migranti, finiti nelle reti, o di avere incrociato barconi di trafficanti armati anche a poche decine di miglia dalla costa italiana.
Ma ad un certo punto i pescatori si sono accorti che avvisare le autorità comportava una serie di grattacapi: convocazioni giudiziarie, spiegazioni, multe per le reti da pesca non autorizzate, sanzioni di altro tipo, sequestri delle imbarcazioni, perdita di giornate di lavoro. “Per evitare questi fastidi, i pescatori che trovano resti umani nelle reti, tagliano queste ultime e si allontanano, dopo avere gettato tutto in mare senza toccare i cadaveri per paura di malattie o infezioni”.
Un comportamento che potrebbe sembrare moralmente discutibile, ma che nasce sia dall’esigenza di portare avanti un lavoro già di per sé difficile e faticoso che dal timore di ripercussioni. “Pescatori troppo solerti e pronti a denunciare potrebbero andare incontro a problemi non con le autorità italiane, ma con la delinquenza d’oltremare”, dichiara Cotroneo.
Insomma, omertà e paura regnano persino in mare aperto. Continuando così, il millenario mestiere del pescatore scomparirà.