di Fabrizio Maria Barbuto

La crudeltà della nostra specie ha toccato il fondo, e non è un modo di dire: per estrinsecare una perversione alla quale ha ormai dato pieno riscontro sulla terra ferma, l’uomo si spinge oggi nelle profondità marine per turbarne gli equilibri e la quiete. È di pochi giorni fa una notizia che ha fatto inorridire il mondo intero: due pescatori islandesi hanno catturato uno squalo e, dopo avergli tagliato la coda, lo hanno restituito al suo habitat naturale in quelle condizioni, deridendolo mentre, a stento, cerca di allontanarsi.

I due, tra un ghigno ed un tripudio, hanno intanto gridato alla bestia: «Buona fortuna col nuoto, bastardo». Questi scellerati teppisti dei mari, non paghi di rendersi i soli testimoni del dileggio, hanno filmato l’impresa postandola sul web. Il filmato ha destato l’indignazione collettiva, ed al coro delle proteste si è aggiunto anche il celebre attore americano Jason Momoa, il quale ha commentato: “Non ho mai visto una cosa così crudele in vita mia. Tutti facciamo degli errori, ma quello che avete fatto voi è malvagità pura”.

Gli innumerevoli dissensi sono fortunatamente bastati a smuovere le coscienze di chi, a ragion veduta, ha provveduto al licenziamento in tronco dei diabolici islandesi. I proprietari dell’imbarcazione a bordo della quale si è consumato il misfatto, attraverso queste parole, hanno reso noti i loro provvedimenti: «Si tratta di un atto completamente ingiustificabile e chi lo ha commesso non ha scuse. Non abbiamo altra scelta che allontanare i responsabili».

La sequenza diffusa a mezzo social potrebbe rendersi una prova schiacciante per i delinquenti, i quali rischiano una denuncia penale per maltrattamenti animali. Nell’atroce video, lo squalo appena squarciato, asseconda l’istinto di nuotare scuotendo l’estremità della coda, ma al posto di essa ha un moncherino sanguinate che freme alla stessa intensità delle risate in sottofondo.

C’è qualcosa di più spietato, in tutto questo, della mutilazione in sé, ed è la beffa dell’inganno: i criminali hanno scientemente infuso nell’animale l’illusione di restituirgli la libertà, così da godersi, alla stregua di un macabro spettacolo, il momento cui esso intuisce che la morte è quanto di meno tragico potesse capitargli. Ad aggravare la posizione dei pescatori contribuisce il fatto che, lo squalo sul quale hanno infierito, appartiene ad una specie in via d’estinzione: l’Eqalussuaq, o squalo della Groenlandia, è uno dei predatori marini più longevi; può vivere fino a 390 anni e raggiunge la maturità sessuale attorno ai 150 anni.

Episodi simili non sono l’unica barbarie perpetrata ogni giorno ai danni delle creature del mare, ma tutte le altre godono del beneplacito di quanti identificano, nella più gratuita brutalità, uno strumento finalizzato al consumo delle prelibatezze poi servite in tavola: aragoste ed astici vengono bolliti vivi poiché, a detta di professionisti, questa strategia di cottura sarebbe funzionale ad intenerirne le carni.

Irrorati da centri nervosi come sono i crostacei reagiscono alla tortura emettendo un sibilo straziante, mentre lo chef, per impedire qualsiasi tentativo di fuga, trattiene su di essi il coperchio della pentola fino all’estremo epilogo di una lenta agonia. Che dire, invece, della morte riservata ad una delle specie animali più intelligenti in natura: i polpi, spesso, vengono annientati dai pescatori attraverso un morso fatale al cervello.

La sorte riservata al pesce spada non è meno spietata: esso è detto anche “pesce cavaliere” perché il maschio della specie, quando ne viene catturata la compagna, si batte strenuamente per la sua liberazione, divenendo facilmente preda di quei pescatori che, grazie a questo istintivo slancio di galanteria, riescono a garantirsi un doppio pescato. Qualsiasi estremismo è da condannare, anche quello ad opera di chi, pervaso da un animalismo tale da sfociare nella faziosità, vorrebbe vietare il consumo dei più comuni prodotti ittici, vi è però il dovere morale di conformarsi al rispetto dell’animale che, assieme alla morte, non merita anche l’insulto dell’irrisione.

Fabrizio Barbuto

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