Oltre la metà della popolazione italiana è costituita da donne e gli elettori di sesso femminile superano quelli di sesso opposto, tuttavia proprio il nostro genere è messo ai margini o addirittura del tutto estromesso dai procedimenti decisionali che pure lo riguardano. Questa sistematica esclusione delle signore viene condotta proprio da quei partiti che ipocritamente si dicono “femministi” e che hanno fatto della guerra al “sessismo” una sorta di vessillo.

Primo tra tutti il Pd, che insieme ad Italia Viva e altri minuscoli satelliti, o microbi, di sinistra, declama a voce la parità dei sessi, nei fatti tuttavia la scorsa primavera ha creato dal nulla, in collaborazione con il M5s, 15 task force composte di circa 500 esperti, che si sono sommati a quelli del comitato tecnico-scientifico, tutti rigorosamente uomini, trasformando persino l’emergenza sanitaria nell’ennesima pessima occasione per accentuare le disuguaglianze. Dovremmo forse concludere che gli unici validi competenti in Italia siano maschi? Difficile anche solo ipotizzarlo, pure perché, statisticamente, le femmine sono più istruite e preparate rispetto ai primi. Dunque, dobbiamo ritenere per forza di cose che ci sia stata da parte dell’esecutivo Conte la volontà di affidare la gestione della epidemia al sesso definito “forte”, forse perché in quelle circostanze drammatiche, secondo il governo, servivano le palle, di cui noi non saremmo munite. Non si individuano altre spiegazioni, purtroppo.

Qualche giorno addietro il segretario dei dem ha annunciato che “l’obiettivo centrale del Recovery Fund sarà la parità di genere”, quella stessa parità che il governo giallorosso ha stracciato sotto i piedi. Secondo il recente Rapporto della Caritas sulla povertà, altissima è l’incidenza delle donne tra i nuovi poveri. Questa pandemia ci ha portate indietro di lustri. E non saranno le dichiarazioni di intenti dei membri del Pd né le lotte delle neo-femministe che si impuntano sulle astine alle vocali e hanno il culto dell’attrice Asia Argento, elevata al ruolo di paladina della categoria, a tirarci fuori dalle sabbie mobili di un disastro economico che si appropinqua.

Il paradosso è che proprio quei partiti che sono tacciati di essere misogini, fascisti, razzisti, sembrano tenerci di più al fare spazio al sesso femminile, attribuendogli quel posto d’onore che gli spetta all’interno della comunità e delle istituzioni, in quanto grandioso è il contributo femminile. Farne a meno equivale a rinunciare e sprecare un capitale umano indispensabile, procurando danno alle donne e alla società nel suo complesso.

Non è un caso quindi che, mentre la sinistra inveisce contro il presunto sessista di turno e promuove la vittimizzazione della donna come nuova forma di femminismo, purtroppo distorto e malato, sia la Lega il partito che nelle ultime elezioni regionali dello scorso autunno, di questo e del passato inverno abbia proposto alla guida di alcune delle nostre Regioni proprio delle signore, alcune delle quali giovani ma niente affatto inesperte. Una scelta coraggiosa, persino ardita, che mira a produrre un taglio netto con il passato. Una decisione che però non ha giovato, in quanto, nonostante il partito di Matteo Salvini goda di un ampio consenso da Nord a Sud, le candidate sostenute non sono riuscite a sfondare, seppure talvolta per una manciata di preferenze. Tranne la leghista Donatella Tesei, la quale, a causa della scomparsa prematura dell’azzurra Jole Santelli, governatrice della Calabria dallo scorso gennaio, rimane l’unico presidente di giunta regionale con la gonna, essendo da quasi un anno a capo della Regione Umbria, territorio rosso dal 1970 fino alla elezione di Tesei. Una esponente – lo ripetiamo ancora – di destra, anzi proprio di quel partito accusato di avere in odio le fanciulle.

Nel nostro Paese in cinquant’anni soltanto 8 regioni su 20 hanno avuto presidenti donne, 6 delle quali dal 2000 ad oggi. Si tratta di Umbria, Valle D’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Piemonte e Calabria, dove appunto da qualche mese era insediata Santelli, prima governatrice di genere femminile in Calabria. Prima del 2000 abbiamo avuto Fiorella Ghilardotti, presidente della Lombardia dal dicembre del 1992 al giugno del 1994, e Anna Nenna D’Antonio, governatrice abruzzese dal novembre del 1981 al maggio del 1983.

Le rappresentanti donne sono soltanto il 35% del parlamentari. E come se non bastasse, in Italia non abbiamo mai avuto un premier che non fosse maschio. Eppure invece di incidere su questo andazzo e rivendicare il suo spazio, il genere ritenuto ingiustamente “fragile” accetta una perpetrata e degradante vittimizzazione, funzionale soltanto a proporlo quale minoranza (in verità siamo la maggioranza) da assistere.

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