Sotto un tetto nebuloso, senza che anima se ne accorgesse, tra gas di scarico, traffico, tumulto di gente, rombo di motori, sirene spiegate, durante giornate insopportabilmente torride che hanno lasciato il posto a notti insopportabilmente gelide, una ragazza di 23 anni, per nove lunghissimi mesi, ha portato avanti la gravidanza campando in una piccola e sudicia tenda allestita da lei stessa in città, nei pressi di una stazione ferroviaria. Siamo nell’hinterland milanese, in quella Milano che ha fatto del suo decoro un contrassegno ma dove pure, di mese in mese, cresce in maniera spaventosa il numero delle persone di ogni età che vivono sul marciapiede. Sul marciapiede, come cose abbandonate, si dorme, si divora ciò che si racimola, si permane disperati a stomaco vuoto, si beve per evadere, si piange, si smette di piangere poiché persino le lacrime si esauriscono, si soffre l’afa, si patisce il freddo, si tende la mano per ricevere qualcosa senza ottenere niente, si lotta, si muore. E si nasce pure. E si nasce in estrema povertà proprio nel mese di dicembre, a pochi giorni dal Natale, come se il cielo avesse voluto inutilmente lanciare un monito ad una umanità troppo distratta e impegnata nelle frivolezze per cogliere certi messaggi. Da circa due millenni, ogni anno, nel mese di dicembre, celebriamo la nascita di un bambino, dato alla luce all’interno di una stalla, tanto misero da essere scaldato dal fiato di un bue e un asinello. E celebriamo anche una madre, tanto sfortunata da essere rifiutata ovunque quella notte abbia chiesto ospitalità, riducendosi a partorire in una stalla. Questa storia ci commuove, ci induce ad essere più buoni, almeno per qualche ora, tuttavia non ci spinge a renderci conto che essa si ripete nella nostra epoca sotto i nostri occhi, nella indifferenza collettiva, nella generale disattenzione. Così accade che una giovane, miracolosamente, riesca a portare a termine la gravidanza come una gatta randagia, nonostante i pericoli e le difficolta e i disagi di una esistenza sul ciglio della strada. Però non è ancora questo l’aspetto più drammatico di tale racconto. Niente affatto. La tragedia si compie dopo la nascita del pargoletto, perché quella madre, la quale, nonostante i pericoli e le difficoltà e i disagi di una esistenza sul ciglio della strada, è stata in grado di proteggere nel suo grembo la sua creatura fino al parto, ha dovuto rinunciare al suo bambino per non condannarlo al suo medesimo destino. Un atto d’amore estremo che si concretizza in una rinuncia, perché qualche volta amare è sapere lasciare andare.

Adesso quella tenda sottile e fragile, che neppure vagamente assomiglia ad un rifugio, nemmeno ad un nido, c’è ancora, sempre fissata lì dove è stata nei mesi passati, ai margini dell’universo. Dentro vi abita una ragazza, che è diventata mamma e che non si è mai sentita tanto sola e disperata e povera come adesso, adesso che il suo ventre è vuoto. Come le sue braccia.

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