Persino nell’era della comunicazione digitale e dei social network che ci permettono di entrare in contatto con chiunque, in qualsiasi momento e ovunque ci si trovi, non siamo riusciti ad abbattere un pericoloso virus: quel senso di vuoto e di isolamento, reale o anche solo percepito, che può fare precipitare chi lo prova nel baratro della malattia fisica e psichica e della depressione.

Di solitudine lentamente si muore. Non hanno dubbi molti scienziati che da diversi anni conducono ricerche in quest’ambito. Nel 2012 il Brigham and Women’s Hospital di Boston ha indagato le conseguenze della solitudine su soggetti cardiopatici, concludendo che coloro che vivono da soli, senza un familiare, o un partner, o anche solo un animale domestico, sono più esposti al rischio di morte rispetto ai pazienti che possono contare su una rete sociale di sostegno o sui propri cari.

Secondo una ricerca della University of California, risalente allo stesso periodo, coloro che sono isolati hanno più possibilità di sviluppare malattie mortali, in particolare gli over 60, le cui capacità cognitive potrebbero essere influenzate in modo negativo dall’assenza di socializzazione.

Più di recente, un gruppo di scienziati statunitensi ha notato che la sensazione di essere soli determina cambiamenti a livello cellulare, in particolare un aumento dei geni collegati all’infiammazione e un abbassamento di quelli collegati alla risposta antivirale con conseguente indebolimento del sistema immunitario. Insomma, la solitudine ci rende fragili, più vulnerabili ai virus, più prossimi alla dipartita.

Ma non è tutto. Gli studiosi della Brigham Young University dello Utah sono giunti alla conclusione che, anche quando l’isolamento è una scelta volontaria dell’individuo, esso ha pessimi effetti sul nostro stato di salute e ci rende anche obesi.

Un vero e proprio dramma in una società come quella odierna, in cui domina l’individualismo e dove la famiglia numerosa, composta da nonni, zii, cugini e nipoti di ogni grado, ha lasciato il posto prima a quella mononucleare e poi addirittura alla cellula unica, ossia il single, che vive da solo e scongela cibi pronti da consumare davanti alla tv prima di andare a dormire in un letto semivuoto.

Ecco perché il fardello della solitudine non pesa solo sulle spalle delle persone anziane ma anche su quelle dei giovani, nonostante la fitta rete di connessioni virtuali nella quale siamo tutti immersi, groviglio che finisce con l’intrappolarci ancora di più – ed è un paradosso – in una condizione di emarginazione, in cui la relazione più intensa che abbiamo diventa quella sterile con il nostro smartphone, a cui dedichiamo oltre la metà del nostro tempo libero.

È indubbio tuttavia che gli effetti di tale progressiva erosione dei rapporti reali si riverberano soprattutto sulle persone anziane, quelle che, per non sentirsi sole, passano giornate intere in compagnia della tv, con la quale però è impossibile interloquire.

Ci ha colpiti la storia di Vincenzo Sardo, un milanese che ha superato già da un po’ gli ottantenni e che, nonostante gli acciacchi dell’età, ogni giorno esce di casa con Loreto, il suo pappagallo di 30 anni, l’unico amico che gli resta. È facile incontrare nel centro di Milano Vincenzo e Loreto che fanno la loro passeggiata quotidiana per non restare tutto il tempo chiusi nel loro piccolo appartamento. Da poco l’uomo è stato dimesso dall’ospedale dove ha trascorso due mesi e mezzo a causa della rottura del femore senza la possibilità di vedere il suo cacatua.

“Poverino, è stato costretto da solo in casa. È stata dura per entrambi. Così, per recuperare, sto cercando di portarlo in giro il più possibile”, ci dice Vincenzo, al quale chiediamo se dopo l’operazione all’anca non sia pericoloso portare sulla spalla la gabbia di oltre 4 kg. “Per Loreto farei di tutto, nulla è un peso”, ci risponde commosso l’uomo, che dice di preferire il suo pappagallo ad un cane o un gatto perché “questo parla”.

Comunicare. Bisogno fondamentale, anzi vitale, di ogni essere vivente. Non possiamo fare a meno dell’altro, chiunque esso sia, persino un animale. Un gatto da accarezzare, un cane da portare a spasso, un pappagallo che ci dà il buongiorno, che ci aspetta, di cui prenderci cura, sono elementi che ci consentono di respirare, di vivere.

Ci siamo dimenticati che mettere un like su un post di un amico, mandare un sms o un cuoricino virtuale, sempre più abusato, sono gesti che non hanno lo stesso valore né il medesimo risultato dello stringersi la mano, del guardarsi negli occhi, dello scambiarsi un sorriso.

Articolo pubblicato su Libero il 31 agosto del 2017

libro ali di burro

Il primo libro di Azzurra Barbuto
A 10 anni dalla prima edizione, la seconda è ora disponibile su Amazon in tutte le versioni

Acquistalo su Amazon