Durò 743 interminabili giorni, ossia oltre 2 anni, dal 18 gennaio 1988 al 30 gennaio del 1990, il sequestro di Cesare Casella, che costituisce uno dei più lunghi rapimenti a scopo di estorsione mai avvenuto in Italia, i cui mandanti non sono mai stati individuati.

Cesare, allora diciottenne, mentre rincasava dopo una serata trascorsa con gli amici fu bloccato da un commando di uomini armati ed incappucciati, costretto a scendere dalla sua vettura e caricato su un’altra automobile, dove trascorse le due settimane seguenti chiuso in un box in compagnia di alcuni banditi. In seguito, fu trasferito a bordo di un camion negli impenetrabili boschi dell’Aspromonte, in cui passò il resto della sua prigionia sepolto, con caviglie e collo incatenati senza tregua, in un tana di 2-3 metri quadrati da cui intravedeva a stento le albe dorate, i tramonti rossi e le penombre turchine delle sere in montagna. In estate e in inverno. In un tempo dilatato all’infinito che è il tempo dei sequestrati.

Per il rilascio di Casella fu pagato un riscatto di un miliardo di lire, tuttavia la banda lo cedette ad altri farabutti che rimisero in vendita il ragazzo come fosse nient’altro che una merce di scambio. 

Oggi Casella fa l’imprenditore e abita a Milano. Da poche settimane, con la nascita di Marcus, è diventato padre per la seconda volta. “Ho completato la famiglia. Ora la mia piccola Chloe, che ha compiuto 9 anni, ha un fratellino. Non potrei essere più felice”, ci confida Cesare. I ricordi legati alla sua detenzione sono ormai lontani, da subito Casella ha voluto lasciarseli alle spalle per ricominciare a vivere una esistenza che gli è stata in parte rubata da perfetti sconosciuti.

Tuttavia, i segni restano, poiché il sequestro di persona è “un atto bestiale, il reato più vile e più crudele che si possa commettere”. Chi lo subisce è una sorta di reduce di guerra, un individuo che ha attraversato gli inferi, visto in faccia il male, tornando indietro ammaccato e salvo. Non si è più gli stessi dopo. Non si può più essere quelli di prima.

“Sono contento per il rientro in Italia di Silvia Romano, ma sono estraneo alle polemiche sulla vicenda. Che si sia convertita sono fatti suoi. Del resto, quando ti confronti con la morte faccia a faccia, non puoi prevedere le tue reazioni. Silvia ha abbracciato la religione dei suoi sequestratori? Non possiamo giudicare la sua scelta, ci tocca soltanto comprenderla”, osserva Cesare, il quale condanna la leggerezza con cui alcune associazioni inviano in teatri tanto rischiosi giovani senza esperienza, che probabilmente sottovalutano i pericoli a cui vanno incontro.

A proposito della sindrome di Stoccolma, meccanismo dell’inconscio che induce i sequestrati a familiarizzare con i propri aguzzini nel tentativo di umanizzarli al fine di sedare panico e angoscia, Casella esclude di averla sviluppata, però ritiene che la mente di Silvia, mossa dall’istinto di sopravvivenza, abbia potuto ricalcare gli usi e sposare il credo dei suoi carcerieri per esorcizzare tutte quelle paure che braccano il rapito: paura di essere trucidato, di ammalarsi, di non rivedere mai più i suoi cari.

“Tra un po’ di tempo la fanciulla analizzerà la situazione che ha vissuto e valuterà la decisione della conversione. Solo in quella fase ella capirà se tale risoluzione è stata momentanea nonché dettata dal terrore di ciò che avrebbe potuto patire oppure autentica”, spiega l’imprenditore, che aggiunge: “Certo, se non fosse stata sequestrata, sarebbe rientrata in patria con pantaloncini e rossetto. Però spetta a lei maturare la sua verità”.

Ha stupito un po’ tutti il fatto che Silvia abbia narrato che i suoi rapitori, soggetti dalla elevata caratura criminale, l’abbiano “trattata con grande umanità”. Domandiamo a Cesare quale tipo di rapporto si instauri tra detenuto e detentore, tra vittima e carnefice. Egli non appare affatto meravigliato dalla testimonianza di Romano.

Insomma, pure per Casella un delinquente che ti tiene incatenato in una fossa scavata in maniera rudimentale nel terreno, tra topi e scarafaggi ed animali selvatici che nella notte fanno irruzione nel tuo lurido giaciglio, può essere capace di gesti di magnanimità. Ci sembra di capire che, allorché i sequestrati parlano di umanità a proposito dei loro rapitori, non intendano riferirsi a quel concetto dominante di umanitarismo che alberga nella testa della collettività.

Per chi non ha riportato certi traumi, è umano chi perdona, chi aiuta il prossimo, chi fa la carità, chi si batte per gli ultimi, chi si dedica agli altri rinunciando a se stesso. Per il sequestrato, invece, il suo sequestratore è umano quando non lo uccide, quando gli garantisce da mangiare e da bere, quando non ne ignora i bisogni elementari. “I carcerieri con cui entravo in contatto, i quali non avevano ruolo di comando, mi dimostravano umanità nelle occasioni in cui, ad esempio, mi portavano il giornale, che per me valeva oro e rappresentava una specie di dono. Ogni cosa extra che mi veniva concessa si trasformava dal mio punto di vista in una dimostrazione di grande umanità”, racconta Cesare.

Ecco allora che può avvenire che oppressori ed oppresso giochino a carte insieme, ridano, discutano di calcio, proprio come è accaduto tra Casella ed i suoi rapitori. “Provavamo ad attutire l’assurdità di quella condizione con la normalità, se non addirittura la banalità, delle conversazioni”, specifica l’imprenditore. “Avvertivo altresì un certo imbarazzo, una sorta di remora nel fare trapelare quella umanità, che restava in alcuni seppellita. Altri, invece, non ce l’avevano proprio. Rammento che qualcuno mi strappò le catenine d’oro, mi sentii deprivato di qualcosa di intimo che mi legava alla mia famiglia”, continua Cesare.

Ma come si supera una esperienza tanto drammatica? Il tempo lenisce ogni dolore, eppure non basta. Occorre il sostegno di familiari ed amici. “E soprattutto bisogna guardare avanti, sforzandosi di trarre qualcosa di positivo da quello che ci appare essere un furto di vita che nessuno potrà restituirci mai più. Adesso non ho più la sensazione che mi sia stato sottratto qualcosa. Mi considero arricchito da quello che ho vissuto, anzi persino privilegiato. Difronte a qualsiasi difficoltà, mi ripeto che non c’è ostacolo che non possa valicare. E cerco di trasmettere questa fiducia nelle proprie risorse anche a mia figlia”, confessa Cesare.

“A Silvia consiglio di scovare la maniera di volgere in bene ciò che di malvagio le è stato fatto. È il nostro modo di vincere. Sono ancora convinto che l’amore trionfi sul male. Ed è ciò che mi ha insegnato mia madre, che si recò in Calabria per sensibilizzare le altre donne sulla sorte di suo figlio di cui non aveva più notizie. Questa sua tenacia contribuì alla mia liberazione”, conclude Casella.

Articolo pubblicato su Libero del 13 maggio 2020 

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