È l’aspirazione comune e massima di ogni essere umano, ma la felicità è anche un virus, nel senso che è fortemente contagiosa e non bastano i due metri di distanza né la mascherina per evitare la trasmissibilità. La letizia passa da un individuo all’altro alla velocità della luce, tanto che da ricerche scientifiche è emerso che, quando un soggetto diventa felice, chi gli vive accanto ha il 25% di chance in più di esserlo a sua volta, poiché, in fondo, si gode maggiormente del bene altrui che del male. Ecco perché, allorché vediamo qualcuno ridere o sorridere, lo facciamo a nostra volta, senza neppure rendercene conto.

C’è chi sostiene che per essere appagati sia utile, se non indispensabile, aiutare il prossimo, mettendosi al servizio di coloro che hanno bisogno; e chi, invece, si dice convinto che sia necessario possedere qualcosa, tanto che spesso facciamo shopping per combattere il cattivo umore (almeno per qualche ora) e bramiamo di vincere alla lotteria trasformandoci in zio Paperone da un giorno all’altro. Ma i più saggi puntualizzano che la vera felicità non consista nell’avere, bensì nell’essere. Essere ciò che si è, avendo il coraggio di esserlo. O essere soddisfatti di ciò che si è, senza tentare invano di essere ciò che non si potrà essere mai.

La faccenda sembra alquanto contorta e intricata, eppure è abbastanza semplice: occorre comprendere chi siamo per condurre una esistenza lieta, considerato che campare nella finzione risulta alquanto ammorbante e faticoso. Ad ogni modo, non esiste domanda più banale e allo stesso tempo dalla risposta più ardua di questa: “Sei felice?”. Ogni tanto ciascuno di noi dovrebbe rischiare di porsi questo quesito e rispondere poi sinceramente. Allora sì che avremmo maggiore possibilità di conseguire una vita gioiosa, dato che la felicità è innanzitutto consapevolezza. Certo è che spesso ci succede di essere felici senza saperlo e di scoprirlo soltanto dopo di esserlo stati, ossia quando oramai non lo si è più ed è troppo tardi e non ci rimangono che il rimpianto e la nostalgia. La felicità – chissà perché – preferiamo compiangerla piuttosto che viverla.

Di sicuro però non può essere davvero e profondamente felice chi non è mai stato davvero e profondamente triste. “Quando siete felici, guardate nel fondo del vostro cuore e scoprirete che è proprio ciò che vi ha dato dolore a darvi ora gioia”, ha scritto Khalil Gibran ne “Il Profeta”. Se ci riflettiamo un attimo su, dobbiamo concludere per forza di cose che la scontentezza non è che un vuoto il quale sarebbe facilmente colmato con ciò che più ci manca. Così accade che per il clochard la contentezza è una casa, per il single non appagato l’avere un partner, per il disoccupato il trovare un buon impiego, per il carcerato essere libero. Tuttavia, la felicità è pure e soprattutto realizzazione. Non di un semplice sogno materiale, bensì di ciò che sogniamo di essere. Quindi per l’aspirante scrittore gioia è pubblicare il suo primo libro, per l’aspirante ballerina debuttare in teatro famoso, per l’aspirante attore recitare in un film importante, per l’aspirante genitore diventare padre o madre. E così via. Ecco perché colui il quale non è cosciente di cosa voglia non potrà mai e poi mai versare in uno stato di grazia.

Tra chiusure, impedimenti, limitazioni, divieti, crescita di disoccupazione, povertà assoluta, fallimenti, oggi è più difficile che mai essere felici dal momento che si è ridotto lo spazio esistenziale riservato ai sogni, alla socializzazione e persino alle emozioni per effetto dell’affermazione del positivismo della razionalità della scienza a scapito di queste ultime. L’unica emozione oggi ammessa (e fin troppo diffusa) è la paura, che si muta di frequente in terrore: terrore del virus, terrore della malattia, terrore della morte, terrore addirittura del vaccino, terrore nei confronti di un futuro che si presenta ai nostri occhi nebuloso più che mai. Se fino allo scorso anno, di questi tempi, traboccavamo di speranza, oggi trabocchiamo di rabbia e insofferenza e disperazione.

sabato scorso è stata celebrata in tutto il mondo la giornata della Felicità ed essa non è stata mai tanto triste. I sondaggi confermano ciò che si respira nell’aria: più di un italiano su due (ovvero il 55,5%) è scontento, la infelicità massima è concentrata in particolare in Campania, Sicilia e Lazio (analisi Uecoop). Ecco ci qui, tutti imprigionati tra le mura domestiche, con il pigiama o la tuta e le nostre facce patibolari. Di impastare il pane e cantare al balcone siamo stufi, delle promesse che ci giungono dal governo altrettanto, non ci crediamo più. “Grazie al cavolo”, commenterebbero a Oxford. Abbiamo intuito che non possiamo salvarci che da soli, e ci venisse almeno data la possibilità di lavorare, di sollevare le saracinesche, di rimboccarci le maniche! Nemmeno quella. Eppure solamente nella fatica, nel sudore e nell’impegno l’uomo trova la sua felicità, la quale non risiede in ciò che gli viene concesso come elemosina dall’organismo statale, bensì in ciò che egli stesso riesce a creare. Ed è tale individuale operazione di perseguimento del proprio interesse e della propria felicità, secondo l’economista Adam Smith, padre del liberismo, a condurre – inevitabilmente – all’ottenimento dell’interesse e della felicità collettivi.

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