Strumento tipico di tutti i regimi totalitari è la censura. Essa serve per assicurarsi il potere assoluto e altresì per mantenerlo. Se ne sono serviti comunismo e fascismo, ecco perché, allo scopo di garantire democrazia e anche pace, all’indomani del secondo conflitto mondiale, la comunità internazionale ha avvertito l’esigenza imperante di codificare le libertà fondamentali, ossia quei diritti inviolabili di cui nessuno di noi può essere spogliato. Una di queste libertà è quella di manifestazione del pensiero, a cui la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, recepita pure dal nostro ordinamento e inserita nella Costituzione, dedica l’art. 19. Lasciatasi alle spalle il funesto e oscuro periodo della dittatura fascista la quale fece largo uso della censura, l’Italia si munì dell’articolo 21 della Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Ecco perché è assurdo e inaccettabile che oggi proprio coloro che si dichiarano antifascisti, e tacciano, in mancanza di supportate argomentazioni, gli avversari politici di essere fascisti e razzisti, non si indignino davanti a forme palesi di censura politica e anzi ne favoriscano e chiedano il ricorso, ponendo sempre più stringenti limiti a quella sacrosanta libertà di pensiero, da cui discende quella di opinione, che sta andando clamorosamente a farsi friggere.
La premessa è doverosa al fine di giungere alla domanda che urge porsi: considerato che la libertà di opinione è sancita dalla Carta, è legittimo perseguire chi la esercita, ossia chi esprime una opinione? Insomma, le leggi che disciplinano i delitti di opinione, eredità del codice fascista nonché retaggio della teoria del reato come disobbedienza, non entrano in aperto conflitto con le norme costituzionali?
Siamo quantomeno nell’ambito di una concezione autoritaria e forse soprattutto etica del diritto penale, in quanto i reati di opinione puniscono l’espressione di un pensiero critico sia per salvaguardare l’ordine costituito dal pericolo rappresentato dalle idee di un soggetto sia per imporre dei pretesi valori morali attraverso la repressione del pensiero difforme, educando l’individuo, anzi plasmandolo in maniera che questi sia programmato a pensarla in un certo modo, modo comunemente accettato. Educativo, ad esempio, è lo scopo del ddl Zan.
In sostanza, lo Stato etico, che ci entra in casa e pure in testa, pretende, anche a costo di calpestare principi sacri e indiscutibili del diritto “ché tanto chi se ne frega”, di conformare il cittadino, anzi le masse, stabilendo come queste debbano pensarla, come debbano esprimersi, quali sostantivi debbano adoperare, quali termini debbano evitare. Alcuni di questi assunti che si intende rendere obbligatori sono: “i migranti sono profughi scappati dalla guerra”, “i bambini e le bambine devono potere scegliere di quale sesso essere”, “chi si schiera contro matrimonio e adozioni gay è omofobo”, “chi non declina al femminile i vocaboli è sessista”, “chi tiene la mascherina abbassata è negazionista”, “chi vuole le aperture è irresponsabile”.
Chiunque estrinsechi un pensiero che non si adegua al “politicamente corretto” viene etichettato, ghettizzato, criminalizzato, spesso pure punito, come è accaduto a qualche collega che ha fatto ricorso alla parola “clandestino” anziché “migrante”. Il passo ulteriore è la condanna sancita da un tribunale. Quello a cui punta la sinistra, la quale mira ad estendere la propria egemonia culturale. Essa ha intenzione di reprimere la libertà di opinione in nome della tutela delle minoranze o delle componenti più vulnerabili della società. Ecco come travestire e spacciare per giusto e pulito il più sporco dei propositi.
Da tempo gli studiosi auspicano un’abolizione, o almeno una revisione, dei reati di opinione, poiché – come spiegato – confliggono con i principi costituzionali e le fondamenta di uno Stato democratico. Si badi bene: ad essere incriminati non sono i giudizi che offendono gratuitamente la personalità degli individui (si pensi alla diffamazione), bensì le manifestazioni non violente del dissenso rispetto ad una istituzione, ad una ideologia, ad una fede, ad un pensiero dominante. Dissenso che rende la democrazia possibile. Senza questo elemento, che si vorrebbe eliminare, la democrazia stessa perirebbe.
Se siamo democratici, come ci professiamo, tali manifestazioni del pensiero, quantunque colorite, mai e poi mai dovrebbero essere punite. E poi chi diavolo lo dice che colui che non la pensa come il gregge, o come Enrico Letta, o Fedez, o Alessandro Zan, o Laura Boldrini, non abbia ragione?