Qualche decennio prima dell’arrivo di Cristo sulla Terra, in quel di Roma, il politico nonché abilissimo oratore Marco Tullio Cicerone accusò il suo avversario Clodio di intrattenere con i suoi fratelli rapporti incestuosi. Quest’ultimo tacciò invece Cicerone di abusare del suo potere di console e di comportarsi come un sovrano dai pieni poteri. L’attacco personale già al tempo della Repubblica (509-27 a.C.) era un costume diffuso e chi sceglieva di dedicarsi alla cosa pubblica doveva mettere in conto di divenire bersaglio quotidiano sia degli antagonisti che del popolo, all’interno del Senato così come durante le assemblee popolari.

Abbiamo ereditato la sottile e spietata invettiva dai romani, i quali non le mandavano a dire e fecero dell’insulto una espressione (talvolta molto bassa) della democrazia stessa. Del resto, l’uso di scambiarsi ingiurie e parolacce ha radici antichissime. Nel III-II millennio a.C. gli egizi per mostrare disappunto bestemmiavano, come testimonierebbero alcuni geroglifici. I greci, invece, non disturbavano le divinità, bensì imprecavano tirando in ballo gli animali. Gli uomini del Medioevo erano soliti provocare il nemico chiamandolo “svuotacessi”.

Certo che oggi, con l’avvento dei social network, forse ci siamo fatti prendere un pochino la mano, tanto che molti di noi, politici e non, passano la giornata sputando cattiverie su questo e quello. L’improperio adesso si è trasformato in una sorta di attività ludica (per qualcuno agonistica), una maniera come un’altra di trascorrere il tempo libero.

Ieri il leader della Lega Matteo Salvini sul web ha denunciato l’appellativo con cui il Fatto Quotidiano lo ha battezzato, ossia “coglionevirus”. Non bastava “cazzaro verde”. Ormai l’ingiuria è talmente diffusa che non ci impressiona più, soprattutto allorché essa è rivolta ad individui che appartengono ad un determinato schieramento, ossia quello di destra, al quale si attribuisce la presunta promozione di una cultura fascista e razzista.

Dunque, chiarito che in politica da sempre si aggrediscono verbalmente le persone più che le idee promosse da queste ultime, occorre specificare che soltanto da due secoli si è imposta la convinzione fasulla che la politica altro non sia che la contrapposizione di due visioni del mondo, di due modi di interpretare la realtà e di affrontare le problematiche sociali ed economiche. In verità, essa non è altro che una forma istituzionalizzata di conflitto in cui per primeggiare, vincere, prendersi il potere, governare, è indispensabile disarmare, fare fuori, eliminare, sconfiggere il rivale. Ed il rivale è sempre un individuo in carne ed ossa. Non lo si abbatterà fisicamente, ovvio, ma si tenterà di screditarlo, di eroderne il consenso, di offenderlo e demolirne l’immagine ricorrendo ad un linguaggio insolente, perfino diffamatorio.

Insomma, ciò che non viene digerito di Salvini non è il suo pensiero, bensì egli stesso. Piace agli elettori, quindi è una minaccia, di conseguenza deve essere “cancellato”.

Recentemente, con l’affermarsi del fenomeno della presidenzializzazione della politica e l’emergere della politica personale nonché della supremazia del leader all’interno delle organizzazioni partitiche, la politica stessa è diventata più che mai scontro all’ultimo sangue tra persone più che tra idee. Queste semmai latitano. Sono assenti o mutevoli. Basti pensare ai cinquestelle che detengono pochi principi e tutti confusi: proclamano che non faranno mai alleanze con nessuno, poi stringono un accordo di governo con la Lega e subito dopo si mettono insieme al loro acerrimo oppositore, il Partito democratico. Il tutto per contrastare l’ascesa di Salvini, così come hanno candidamente ammesso.

Insomma, insultarsi sul piano personale fa parte delle regole del gioco politico. E non c’è speranza che il progresso della civiltà ci ponga sulla retta via, rendendoci poco a poco meno incivili. Ce lo insegna la storia: negli ultimi millenni è avvenuto semmai il contrario.

Articolo pubblicato su Libero il 19 febbraio del 2020

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