Si stima che ogni anno nel mondo vengano sprecati 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, soltanto in Italia ne sciupiamo circa 150 kg all’anno per persona. Ogni italiano, inoltre, consuma 200 kg di carta l’anno, spesso inutilmente. Per non parlare del fatto che ogni dì l’equivalente di 270 mila alberi finisce nel wc sotto forma di carta igienica (non riciclata) o comunque nelle discariche di tutto il mondo, mentre scendiamo in piazza contro la deforestazione. Ogni anno disperdiamo 3,5 miliardi di metri cubi di acqua (il 40% di quella immessa nella rete idrica) a causa delle cattive condizioni delle tubature che dovrebbero essere riparate o modernizzate. E usiamo solamente l’80% degli indumenti che compriamo e che tuttavia seguitiamo indefessi ad acquistare nonostante i nostri armadi rischino l’implosione. Quando si parla di denari pubblici, lo spreco si fa persino più grave, dato che risulta che lo Stato sperperi circa 200 miliardi ogni anno (il doppio della evasione fiscale).

Siamo ossessionati dallo “spreco”, una delle parole più ricorrenti nel dibattito pubblico, sulla scia di un ecologismo sempre più ideologico che rasenta l’isteria collettiva e che ci illude di essere rispettosi dell’ambiente se solo ci muoviamo sul monopattino, eppure siamo spreconi incalliti, incapaci di vivere non senza consumare bensì senza buttare via tutto ciò che sarebbe facile preservare. Coltiviamo una passione sfrenata per il superfluo e quello che non ci serve viene sovente da noi ritenuto indispensabile. Guai a chi ce lo tocca.

“Melius est abundare quam deficere”, ossia “meglio abbondare che scarseggiare”, è il mantra che ci guida nella vita quotidiana e che spesso ci porta a sbattere. A sbattere contro il muro di gomma della nostra avidità. Preferiamo gettare piuttosto che correre il rischio di difettare. La cultura dell’eccesso ci impone e ci esorta ad accumulare, ad esagerare, a caricare, a gonfiare, a disperdere. E la cosa più tragica è che non ne abbiamo mai abbastanza.

Non siamo più la società dei consumi, o consumista, siamo sfociati oramai nella società degli sprechi, nella quale l’individuo-consumatore non si percepisce più appagato per il semplice fatto di possedere qualcosa bensì desidera possedere e pure usare male, in maniera inutile o inefficiente, beni che andrebbero adoperati con parsimonia, con cura, con buonsenso. Di questo genere di eccedenze che finiscono con l’ingombrare o con il distruggere, tuttavia, si discute fin troppo.

Quotidiani, televisioni, libri ci spiegano in modo ossessivo e martellante come l’uomo stia annientando il pianeta a causa anche di un utilizzo sconsiderato delle preziosissime risorse non rinnovabili, abitudine a cui si può porre rimedio attraverso l’esatto opposto dello spreco, ovvero il risparmio. Ci viene illustrato come cucinare un intero pranzo con gli avanzi, stupendo i commensali, come fare una doccia senza sperperio di acqua e gas, come differenziare i rifiuti per destinarli nel modo corretto al riciclo, come risparmiare sulla bolletta della energia elettrica, e veniamo invitati a ricorrere ai mezzi pubblici piuttosto che all’automobile privata, in quanto la prima soluzione è indicata quale più etica e conveniente.

E poi ci sono altre forme di spreco di cui nessuno si occupa, su cui nessuno riflette e contro cui nessuno propone antidoti e terapie, ma che pure peggiorano noi stessi e le nostre esistenze. E persino il mondo. Lo spreco di parole, di fiato, quello di tempo, quello di talento, di occasioni, di opportunità dovrebbero preoccuparci di più dello spreco di quello che, per un piccolo errore di valutazione, abbiamo messo nel carrello della spesa e che, non consumato, dal frigorifero migrerà poi dritto dritto nella pattumiera.

Quanto tempo dedichiamo ad attività o persone che non ci appagano o che addirittura ci rendono infelici, tristi, rabbiosi, frustrati? Quanto tempo sottraiamo così alla vita, a quello che invece ci renderebbe felici, alle nostre passioni, ai nostri affetti più cari? Proprio il tempo è la nostra risorsa più pregevole, tanto che qualcuno lo definisce addirittura “il vero lusso”, eppure ne buttiamo via tanto in situazioni alle quali crediamo di non poterci sottrarre oppure attendendo che accada qualcosa che toccherebbe proprio a noi fare accadere. Pensiamo altresì al tempo investito in relazioni sterili, spente, finite eppure alle quali ci aggrappiamo ostinatamente.

E cosa dire poi delle parole? Ne pronunciamo troppe, ne scriviamo troppe, ne urliamo troppe nella speranza forse di essere capiti mentre ci sforziamo di renderci incomprensibili magari a chi – fatica inutile – non ha alcuna intenzione di intenderci e non compiamo alcuno sforzo per ascoltare. E – paradosso – ricorriamo sempre alle parole errate, o brutte, o cattive, le quali, anziché favorire la comunicazione, talvolta la inceppano.

Quelle giuste, belle, buone, invece, tendiamo a non pronunciarle, a risparmiarle, come “grazie”, o “ti voglio bene”, o “ti amo”, o “per favore”. Ci esprimiamo con livore, raramente con amore. Succede in famiglia, succede nei dibattiti televisivi, succede in politica, succede in ufficio, succede persino per strada. Il silenzio quasi ci spaventa in quanto ci costringe, nostro malgrado, a sporgerci su quel caos, o quel vuoto di tutto, che ci portiamo dentro. Ignoriamo quanto esso possa talvolta essere più utile e incisivo di certi insopportabili monologhi in cui non facciamo altro che ripetere all’infinito il già detto.

E poi cosa è più terrorizzante dello spreco di un talento? Chi ne ha uno e non lo sviluppa è come se lasciasse se stesso incompiuto e la propria vita non vissuta, non goduta, non realizzata. Costui saprà mai veramente chi è? O si limiterà ad essere ciò che la comunità, fatta di familiari e amici ma anche estranei, si aspetta che egli sia. Lo spreco di occasioni non è da meno.

La cara vecchia saggezza popolare vuole che ci siano treni che passano solamente una volta nell’arco di tutta quanta l’esistenza. Bene. La maggior parte della gente resta ferma alla stazione ad osservare i binari, sognando di avere il coraggio, prima o poi, di salire a bordo. E forse è per questo che intorno alle stazioni ferroviarie di tutto il mondo di solito si raccolgono balordi e disperati di ogni tipo. Simbolicamente esse rappresentano quelle chance a cui l’essere umano nel suo intimo anela ma da cui che pure rifugge, condannandosi a campare in una sorta di limbo, dove soltanto lo sprecare tutto e il più possibile dà la pallida impressione di esistere.

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