“Torturandomi, picchiandomi e puntandomi una pistola in faccia, mi hanno costretto a firmare una confessione. Sfinito, mi sono autoaccusato perché era l’unico modo per farli smettere”. A parlare è Giuseppe Gulotta, 59 anni, muratore di Certaldo, in provincia di Firenze, condannato all’ergastolo nel 1976, all’età di 18 anni, per avere ucciso due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, in quella che è passata alla storia della cronaca italiana come la strage di Alcamo marina, provincia di Trapani.

Per 36 lunghi anni considerato un assassino, Gulotta nel 2012, dopo ben 22 anni di carcere, è stato assolto e quest’anno la Corte di Appello di Reggio Calabria gli ha riconosciuto un indennizzo di 6,5 milioni di euro a fronte dei 56 che il suo avvocato, Pardo Cellini, aveva chiesto come risarcimento per i 22 anni di carcere da innocente.

Durante la notte del 27 gennaio del 1976, i due giovani carabinieri, mentre dormivano, furono crivellati a colpi di arma da fuoco nella casermetta Alkamar all’interno della stazione dei carabinieri della località turistica di Alcamo marina. A dare l’allarme fu la polizia di scorta al segretario del MSI, Giorgio Almirante, che stava passando sulla statale alle ore sette del mattino seguente.

All’inizio furono sospettate le brigate rosse, poi si seguì la pista mafiosa, alla fine, dopo essere stati assolti in primo grado e temporaneamente scarcerati, furono condannati quattro giovani alcamesi, Giuseppe Gulotta e Giovanni Mandalà all’ergastolo, Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli a 20 anni. Giuseppe Vesco, un carrozziere considerato vicino ai gruppi anarchici, che aveva confessato la strage e accusato i quattro ragazzi, salvo poi ritrattare e accusare i militari, fu trovato impiccato in carcere pochi mesi dopo, in circostanze alquanto misteriose dato che Vesco aveva solo una mano. 

In seguito alle dichiarazioni rese ai magistrati da un ex brigadiere, Renato Olino, il quale raccontò che le confessioni dei giovani erano state estorte per mezzo di atroci torture, dall’elettroshock all’annegamento simulato, dai pestaggi alle minacce di morte, nel 2011 si aprì la prima revisione del processo fino ad arrivare all’assoluzione piena dei condannati dopo 36 anni dai fatti.

La strage di Alcamo, tuttora irrisolta, rappresenta uno dei più gravi casi di errore giudiziario nonché di ingiusta detenzione nella storia italiana. 

A testimoniare questa tragica esperienza Giuseppe Gulotta. Un uomo a cui lo Stato italiano ha rubato gli anni più belli della sua vita. 

Come sono stati i 22 anni di carcere da innocente? 

“Sono stati terribili. Quando entri in carcere, vieni allontanato dalla famiglia e dagli affetti, diventi un numero, inizi ad essere nessuno. Io sono stato fortunato perché i miei cari non mi hanno mai abbandonato. Inoltre, essendo un ergastolano, mi è stato concesso di stare da solo in cella e non ammassato con altri detenuti, come di solito succede. Incontravo i miei compagni solo nel corridoio, quindi ho trascorso tutti questi anni in totale solitudine, con la speranza che la verità venisse fuori”.

Perché l’hanno voluta incastrare?

“Questo non lo so. In quel periodo era in vigore la strategia del terrore. Succedevano cose strane. Il mio arresto e la mia condanna all’ergastolo sono stati modi per placare l’opinione pubblica, distogliendo anche l’attenzione dai veri colpevoli. Insomma, due carabinieri erano stati uccisi, ma i mostri stavano già pagando”. 

Che genere di torture ha subito per arrivare alla confessione? 

“Ho passato una notte intera sotto pressione. Le 12 ore più lunghe della mia vita. Ero un ragazzino di appena 18 anni con il sogno di diventare finanziere e all’improvviso mi trovavo in quella stanza, con un manipolo di carabinieri, almeno una decina, tutti contro di me. Non avevo paura, ero terrorizzato. Mi tiravano e mi strizzavano gli organi genitali, mi percuotevano a mani nude e anche armati. Ho subito sputi, minacce, pestaggi violentissimi, seduto su una sedia con polsi e caviglie legati. Ad un certo punto ho perso i sensi. Quando sono rinvenuto, ricordo di avere detto: – Ditemi cosa volete che dichiari e lo farò subito”.

Ha temuto di morire in quei momenti?

“Ho pensato di morire. Anzi, ad un certo punto, ero ormai certo che non sarei uscito da lì sulle mie gambe. I carabinieri sanno essere convincenti quando vogliono. Io non sono stato un caso isolato. Qualcuno è anche morto”. 

Cosa l’ha più ferita?

“Vedere un volto nuovo della Giustizia in cui io avevo sempre creduto. Era un volto mostruoso e minacciava di distruggermi. Quando ho detto a quei carabinieri che il mio sogno era fare il finanziere, mi hanno risposto con disprezzo: – Certo, così con la pistola in mano potrai uccidere più facilmente, assassino”.

Lei ha trascorso la sua detenzione nel carcere di San Gimignano. Lì ha mai subito violenze?

“No, mai. San Gimignano allora era una realtà virtuosa. Oggi forse le cose sono cambiate perché tutte le carceri sono sovraffollate di immigrati. Ho ricevuto qualche piccola prepotenza, ma nulla di grave. Si sa che quando ad un uomo è dato pieno potere su un altro uomo, può provare il gusto di esercitarlo”.

Non si è mai rassegnato, neanche per un momento?

“No, io ho sempre creduto che sarebbe venuto fuori un fatto nuovo e che saremmo arrivati alla revisione. La speranza non mi ha mai abbandonato. Forse questo, oltre che il sostegno della mia famiglia, mi ha permesso di farcela. Il carcere è duro. Ma da innocente è peggio”.

Cosa prova oggi?

“Oggi mi sento libero, tranquillo, felice di poter vivere accanto a mia moglie, ai miei figli e ai miei nipoti. Purtroppo non ho i soldi per mangiare. Non ho ancora ricevuto l’indennizzo da parte dello Stato e vado  avanti grazie ad un prestito mensile che mi concede la banca, ma sto accumulando importanti interessi”.

Quando conta di ricevere l’indennizzo?

“Ancora non si sa nulla. L’avvocato dice che bisogna aspettare. Ora è quasi un anno… Prima lavoravo, ma, appena sono stato assolto, sono stato anche licenziato”.

Può spiegare meglio?

“Seguire i processi mi aveva portato ad assentarmi dal lavoro e, quando sono stato assolto, scaduto il periodo di aspettativa, la ditta edile per cui lavoravo mi ha mandato a casa una lettera di autolicenziamento, che ho dovuto firmare. Ho provato a cercare un altro impiego, ma nessuno assume un uomo di 59 anni”.

Lei ha ancora fiducia nella giustizia?

“È una domanda difficile. Fiducia. Non so cosa dire. In tutti questi anni c’è stato chi mi ha assolto e chi mi ha condannato. Bisogna avere fiducia. Bisogna credere nelle istituzioni, nella magistratura, nei carabinieri, molti di loro hanno un grande cuore. Non ho rabbia. Io non posso avere rabbia verso tutti, non sarebbe onesto. Devo avere rabbia verso quelle persone che mi hanno torturato”.

Dobbiamo ritenere che ci siano altri innocenti in carcere? 

“Assolutamente sì. Ci sono e non sono pochi. Quello che è successo a me può accadere a chiunque, per questo dobbiamo essere più prudenti nel pronunciare le nostre condanne morali. Non appena riceverò l’indennizzo che mi è stato riconosciuto, creerò con i miei avvocati una fondazione a mio nome per aiutare gli innocenti, favorendo la revisione dei processi”. 

Come conduce oggi le sue giornate?

“Passo il tempo con la mia famiglia. Curo anche un orto, mi rilassa farlo. Quando ho conosciuto mia moglie, lei aveva già tre figli, poi ne abbiamo avuto un altro. Oggi ho quattro figli e tantissimi nipoti. Cerco di trasmettere loro il rispetto delle regole e soprattutto degli altri, oltre che l’umiltà”. 

Ma poi, sa, leggendo le carte non ho capito perché avrebbe dovuto uccidere quei due carabinieri?

“Non si preoccupi perché non l’ho mai capito neanche io”.

Si sente un po’ abbandonato dallo Stato?

“Sì. Lo sono. Chi mi ha creato il danno non si è poi curato di me. Sono solo. Mi è stato riconosciuto un indennizzo, ma di fatto ancora non l’ho ricevuto, forse per questioni burocratiche, non voglio credere che sia a causa di mancanza di volontà. Ho fiducia che presto uscirò fuori da questa situazione di estenuante attesa in cui sono debitore nei confronti della banca”. 

Che segni le ha lasciato quella tragica notte di torture? 

“Fisicamente poco. Ma dentro resta la cicatrice. Ne faccio i conti spesso, di notte. Vengo assalito dai mostri interiori. Sono ancora un ragazzo inerme, chiuso in quella stanza, circondato. Inizio a tremare tutto. Sudo. Urlo. Mi sembra di morire. Poi apro gli occhi e capisco di essere a casa, al sicuro. E mi dico: – È stato solo un altro incubo”. 

Articolo pubblicato su Libero del 2 dicembre 2016

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