L’esito delle elezioni statunitensi non ha indotto (né lo farà) i progressisti a riflettere su errori e lacune che hanno determinato la sconfitta e la perdita di fiducia da parte dell’elettorato, sull’inutilità del sostegno dei media e dell’endorsement da parte delle celebrità che compongono il mondo patinato di Hollywood, endorsement che Kamala Harris dallo scorso luglio incassava a favore di telecamere con un sorriso plastificato, finto e per questo inquietante, come se ricevesse una sorta di investitura divina che le avrebbe garantito l’elezione su questa terra e persino in paradiso, sull’inefficacia delle inchieste e dei processi, ovvero dell’arma giudiziaria, per combattere e mettere fuori gioco l’avversario nonché sulla spietata demonizzazione di quest’ultimo e la previsioni di scenari addirittura apocalittici nel caso in cui egli vincesse.
Anzi – paradosso – il risultato delle votazioni è servito alla sinistra globale per avvalorare con maggiore presunzione i propri inamovibili convincimenti: non è essa ad essersi scollata dalla realtà, quindi dalla gente, è il popolo ad essersi involgarito, ad essere divenuto ancora più mediocre, ignorante, stupido, fascista, maschilista e razzista, tanto da votare quel demone di Donald Trump, il quale incarna tutti i vizi, i difetti e i peccati del maschio bianco occidentale, figura a cui i progressisti terzomondisti attribuiscono la paternità di tutti i mali presenti da millenni su questo pianeta, dalla schiavitù alla guerra, dal genocidio alla sottomissione della donna.
Ed ecco che colpevole del trionfo di Trump, dato che un colpevole deve per forza essere individuato, è proprio il popolo che lo ha votato, il quale non è stato in grado di comprendere il proprio sbaglio e il proprio abbaglio, di cui, come ci spiegano dotti giornalisti, si pentirà. Colpevole è, stando alla sinistra, il razzismo, che ha indotto gli americani a non votare una nera, per di più immigrata. Colpevole è altresì quel maschilismo che ancora affliggerebbe la società americana, sessismo che ha portato i cittadini del Paese a stelle e strisce a non votare una donna, quindi a preferire un bullo molestatore sessuale seriale e fascista alla Casa Bianca piuttosto che una signora, per quanto civile, composta, intelligente, colta e progredita ella sia.
Ed è proprio questo il punto di tutta quanta la questione. La vittoria di Trump è stata trasformata dalla sinistra nella certificazione che la società americana è razzista ma soprattutto sessista. Dunque, in pieno declino per questo.
In un Occidente in cui ormai ciascuno è ridotto al colore della sua pelle e al suo sesso, elementi che ne dovrebbero determinare la categoria di appartenenza (quella delle vittime o quella dei colpevoli), persino l’elettore subisce tale classificazione: se l’elettore è donna, allora deve votare una donna, come si aspetta la giornalista Natalia Aspesi che oggi ce lo illustra su Repubblica; se è nero, allora deve votare un nero. E la chiamano “democrazia”. Ed ecco che pseudo-intellettuali indignati e in lutto non si capacitano del fatto che donne, neri e latini non abbiano preferito Kamala, tanto che ella è stata sconfitta.
La spiegazione è da rintracciare lì: non negli errori della sinistra, nel senso di superiorità con il quale essa guarda ad antagonisti politici e gente comune, nella sua crisi di identità, nel suo attorcigliarsi intorno a questioni irrisorie di cui ai cittadini elettori non frega niente, ma nel razzismo e nel sessismo. Da qui i giudizi feroci nei confronti di un popolo, quello statunitense, reo di non avere votato come i progressisti si sarebbero attesi. La sentenza è chiara: quei bruti sono maschilisti e razzisti, dunque scelgono il tycoon come presidente.
Ed è strano, davvero strano. Cosa? Che questo coro unanime di riprovazione non si sia levato verso un altro popolo, quello iraniano. Quello che qualche giorno fa ha permesso, nella totale indifferenza, che una studentessa, Ahoo Daryaei, venisse redarguita e aggredita dalla polizia morale all’interno dell’Università di Scienza e Ricerca di Teheran poiché la ragazza non indossava il velo correttamente. Ella è stata spogliata, privata della felpa, rimanendo in reggiseno. Allora, come atto di ribellione, Ahoo si è sfilata pure i pantaloni, lanciandoli contro gli agenti e passeggiando in biancheria intima e impaurita, ma allo stesso tempo orgogliosa e fiera, nel piazzale dell’ateneo. Le altre donne, come si può udire nei video che girano sulla rete, la deridevano osservando la scena dalle finestre delle aule. Nessuno è intervenuto. Anzi, le signore hanno collaborato alla sua cattura e al suo arresto.
Tuttavia, i soloni di sinistra si scagliano contro le americane che non hanno votato Kamala e non contro quella parte di iraniane che si rendono complici delle condizioni di sottomissione in cui versa il loro stesso genere nei Paesi islamici. E come le donne islamiche sono spesso complici laggiù lo sono anche qui. Penso alla madre di Saman, che ha consegnato la figlia ai suoi assassini attirandola con l’inganno, i sorrisi e le promesse di pace. Penso anche a quelle ragazzine che, a Modena, proprio qualche dì addietro, hanno percosso la compagna di scuola in quanto aveva scelto di non portare il velo. Una maniera per richiamarla all’ordine, ovvero alla sottomissione.
Ahoo ha due figli piccoli ed è conosciuta come una ragazza straordinariamente coraggiosa, idealista, intelligente, come ha raccontato la giornalista iraniana Masih Alinejad, la quale ha raccolto le testimonianze degli amici. Ma il regime ha fatto sapere che Ahoo è pazza e che è stata rinchiusa in un ospedale psichiatrico. La famiglia non ha potuto vederla né sapere altro. Ed è chiaro che Ahoo non è che l’ennesima vittima di un regime islamico che reprime ogni atto di protesta, anche il più pallido, con lo spargimento di sangue. Sono ormai migliaia e migliaia le donne arrestate, violentate, picchiate selvaggiamente fino a giungere al coma, torturate, perché colpevoli di avere mostrato una ciocca di capelli o un lembo di pelle. E questo non dovrebbe né fare ridere né lasciare indifferenti.
Per le sorti di Ahoo Daryaei nessuno si straccia le vesti. Le femministe restano mute, per loro è più importante la sconfitta di Kamala o l’assenza di un’astina alla vocale piuttosto che il tragico epilogo di una giovane che da sola e con tutto quello che possiede, cioè con il suo corpo nudo e senza difese, ha sfidato a testa alta un regime e di cui non sapremo più niente.