Ci costa 6,5 miliardi di euro l’anno e non produce nulla di buono. Il reddito di cittadinanza, che ha portato i cinquestelle a conseguire il 32,7% dei consensi alle elezioni del 4 marzo del 2018, non ha realizzato nessuno degli obiettivi perseguiti dai suoi promotori, ma soprattutto grazie ad esso ha trovato ad oggi un impiego, il più delle volte precario (65% dei contratti stipulati è a tempo determinato, dato febbraio 2020), soltanto il 4% di coloro che percepiscono l’obolo e che da oltre un anno attendono uno straccio di proposta di lavoro.

Su 908.198 percettori che sono chiamati a stipulare il cosiddetto “patto per il lavoro”, che inaugura l’iter che dovrebbe condurli all’agognato inserimento professionale, solamente 39.760 sono riusciti a scollarsi dal divano per andare a faticare (fino a dicembre scorso erano circa 28 mila gli occupati), come ha reso noto il presidente di Anpal, Mimmo Parisi. Tuttavia, i pentastellati si dichiarano soddisfatti di codesti numeri e li ritengono un ottimo risultato.

Sappiamo che beneficiano del sussidio 5 milioni di persone, appartenenti a 1.375.000 famiglie. Ma questo non significa che il reddito grillino abbia “abolito la povertà”, così come aveva proclamato Luigi Di Maio nell’autunno del 2018. Infatti, gli assegni sono spesso inconsistenti oppure finiscono nelle tasche sbagliate, ossia in quelle di boss mafiosi (101 scoperti pochi giorni addietro), spacciatori, lavoratori in nero e gente dedita alla truffa, che di certo non ne hanno bisogno, come – ahinoi – ci racconta ogni dì la cronaca.

Se lo scopo della misura era quello di incrementare i consumi, quindi altresì produzione e Pil, così come affermavano i pentastellati e pure Davide Casaleggio, presidente e tesoriere dell’Associazione Rousseau da cui dipende il Movimento, il quale parlava nientepopodimeno che di “effetto imponente”, l’intento non è stato conseguito. “Il reddito di cittadinanza può fare ripartire consumi e crescita. Affinché nessuno sia lasciato indietro”, ci spiegava Casaleggio junior. Correva l’anno 2017, mese di maggio. Si era spinto oltre Luigi Di Maio, che nel settembre del 2018 aveva vaticinato il boom economico e l’esplosione dei consumi.

Secondo l’ex ministro per il Sud, Barbara Lezzi, il sussidio avrebbe sortito un effetto espansivo: “Il reddito farà ripartire consumi, occupazione e profitti a beneficio delle piccole e medie imprese, eppure viene tacciato di essere uno strumento assistenzialista”, (Blog delle Stelle, settembre 2015). Assodato che tutto ciò non è avvenuto e che neppure la miseria è stata debellata per decreto, passiamo all’altro obiettivo perseguito, cioè quello di creare occupazione e combattere la disoccupazione. Anche in tal caso, siamo davanti ad un fiasco.

Come abbiamo già scritto nell’introduzione di questo articolo, i centri per l’impiego hanno racimolato solo al 4% dei titolari del sussidio un’attività lavorativa che almeno nel 65% dei casi è temporanea. Inoltre, in seguito alla paralisi del sistema economico protratta ad oltranza da questo esecutivo per contrastare la diffusione del contagio in parte sono saltati e in parte salteranno nei prossimi mesi 500 mila posti di lavoro, cosa che molto probabilmente manderà presto in tilt il circuito stesso del reddito a causa dell’aumento esponenziale delle richieste da parte dei neo disoccupati.

Per loro non sussiste alcuna possibilità di essere assorbiti dal mercato poiché le imprese, le quali potrebbero fornire impieghi, falliscono e non ricevono aiuti dal governo, che le snobba. Ma il proposito dei grillini era pure quello di abbattere le disuguaglianze attraverso codesto provvedimento. Missione non riuscita. Anzi, le disparità si sono acuite, considerando che è ingiusto che i mafiosi, che di certo non soffrono la fame, sottraggano a chi ha bisogno soldi pubblici, versatigli direttamente dallo Stato.

Insomma, il cavallo di battaglia dei cinquestelle è un clamoroso flop, che pone ulteriormente in luce l’incompetenza di un gruppo di dilettanti della politica, che hanno fatto di demerito, incapacità, approssimazione e faciloneria i loro vessilli, trasformando l’Italia in una Repubblica non più “fondata sul lavoro”, bensì sul bonus, “regalato” da un governo che sempre di più pretende che gli si renda conto di come gli abitanti della penisola utilizzano i denari che vengono loro elargiti. Politici mutati in despoti, cittadini mutati in sudditi, i quali devono osservare severi e bizzarri divieti, compilare autocertificazioni, accettare di essere vessati oltre che dalle tasse pure dalle multe, essere indirizzati su cosa acquistare, quando uscire di casa, cosa indossare, dove recarsi in vacanza.

Lo chiamano “Stato paterno”, ma sembra di più uno Stato patrigno e maligno, che passa la paghetta e non concede futuro.

Articolo pubblicato su Libero il 28 maggio del 2020

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