“È stato scambiato per un clochard” hanno scritto i giornali a proposito di Giuseppe Ramognino, l’uomo di 78 anni morto il 2 maggio scorso presso il pronto soccorso dell’ospedale Santa Croce di Moncalieri, in provincia di Torino, dopo 23 ore di agonia trascorse tra la sala di attesa, il corridoio ed il bagno, dove si recava di frequente per trovare sollievo. “È stato scambiato per un clochard” significa in sostanza che la condizione di senzatetto giustifica, o almeno spiega in modo plausibile, la negazione dell’assistenza, la noncuranza del personale sanitario, dai medici agli infermieri, nonché quell’arma di distruzione micidiale che è l’indifferenza. Eppure una persona che sta male, che vomita liquido verde, che perde i sensi e non si regge in piedi, è sempre e comunque un essere umano che deve essere aiutato, sebbene non profumi di acqua di colonia ed i suoi vestiti siano sporchi e logori. Ove ciò non avvenga, non possiamo affermare di essere parte di uno Stato civile.

No, Beppe non era un vagabondo. Una casa ce l’aveva, in campagna, e lì viveva in solitudine, poiché aveva scelto di sollevare dei confini tra lui e la gente. Fatti suoi, ed in parte lo comprendiamo. Tuttavia, ogni giorno si recava dal tabaccaio per comprare le sigarette ed una volta alla settimana raggiungeva il mercato per vendere i prodotti da lui stesso coltivati. Non era un vagabondo. E allora? Cosa sarebbe cambiato se lo fosse stato? La sua dipartita a causa di un infarto intestinale, dovuto a sua volta ad una trombosi, forse avrebbe avuto minore valore?

Il punto semmai è un altro: non è ammissibile che un individuo si spenga in un ospedale, ossia nel luogo in cui avrebbe potuto essere messo in salvo e avrebbe dovuto essere assistito, dopo 23 ore di sofferenze atroci, abbandonato come una cosa vecchia, come un sacco dell’immondizia, posto in un angolino, su una sedia a rotelle, dalla quale Beppe è scivolato, tanto era debole. Non è ammissibile che gli infermieri, i quali sanno, accettano e scelgono da prima di formarsi che maneggeranno liquidi corporei, sangue, pipì, pus e puliranno pustole e deretani, facciano poi gli schizzinosi davanti ad un signore barbuto che emana un cattivo odore ed è in procinto di passare all’altro mondo, avendo una trombosi in atto. E quindi lo indirizzino verso l’uscita, ossia verso la pericolosa strada, sebbene questi si trascini ed appaia in evidente stato confusionale. Non è neanche ammissibile che i medici, i quali hanno fatto un giuramento solenne, prestino cure a chi si presenta abbigliato decentemente e neghino terapie e riguardi a chi ha un aspetto trasandato e dimesso.

Questa è una denuncia.

Giuseppe Ramognino è stato ucciso. Ci sono diversi modi di ammazzare. Egli è stato massacrato piano piano, non con un colpo dritto dritto al cuore, che lo avrebbe steso in un attimo, e neanche con una pugnalata alla gola, che lo avrebbe dissanguato nel giro di qualche secondo. Il suo assassinio è stato lento, crudelissimo, tragico, maturato nel disinteresse generale. È stato fatto morire. Non c’è una mano colpevole, quella che ha impugnato il corpo contundente. Ci sono però tanti arti che non hanno compiuto il loro dovere. Tanti occhi che si sono voltati dall’altra parte. Tante teste che hanno pensato: “Tanto questo è solo, è un povero disperato, ma chi se ne frega? Che crepi pure!”.

E su codeste coscienze deve pesare come un macigno la scomparsa di Beppe. E chi doveva fare e non ha fatto deve risponderne non solo davanti al giudice supremo, Dio, un dì, ma è in debito di risposte pure qui, adesso, su questa terra, piena da un lato di soggetti fragili come Beppe, incapaci di difendersi, di urlare chiedendo il rispetto dei propri diritti, e dall’altro di un’umanità disumana sorda ed insensibile, che etichetta gli altri in base agli indumenti che indossano e – vigliacca com’è – si mostra disponibile soltanto verso chi risulta ricco ed accompagnato. Una melassa debole con i forti, sfrontata ed arrogante con i deboli.

Tuttavia, secondo il pm Ciro Santoriello non ci sono responsabilità per la morte di Ramognino, tanto che lo scorso settembre è stata chiesta l’archiviazione dell’inchiesta. A giudizio del pubblico ministero, dai filmati delle camere interne non emergerebbero illeciti penalmente rilevanti da parte di medici ed infermieri. Dobbiamo desumere dunque che lasciare schiattare un essere umano, il quale è o sembra un senza fissa dimora, in un angolino del pronto soccorso in cui il personale stesso lo ha relegato dopo averlo raccolto dal pavimento del bagno, dove Beppe era svenuto, non costituisca reato.

Giunto in ospedale intorno alle 10 del mattino del primo maggio e mandato via intorno alle 13, Beppe era tornato indietro dopo neanche cinque minuti. Segno che il suo allontanamento non fu affatto volontario. Questa sua seconda visita, sempre stando a Santoriello, “alla luce delle condizioni personali (sostanzialmente un clochard o comunque un misantropo) è avvenuta per passare lì la notte, al pari di molti soggetti secondo una consuetudine purtroppo inveterata”. Ma mancavano ancora diverse ore alle tenebre. Continua il pm: “Lo si vede seduto in maniera normale. Sfoglia una rivista, non presenta sintomi di sofferenza”.

Insomma, Beppe viene descritto alla stregua di una signora che aspetta placida il suo turno dal parrucchiere, eppure egli si vomitava addosso, barcollava, andava e veniva dalla toilette deambulando con fatica. Conclude il magistrato: Ramognino “avrebbe avuto scarse possibilità di salvezza, il quadro clinico era ormai irreversibile”. Ormai? Ed il giorno precedente, quando Giuseppe è stato trasportato al nosocomio, si sarebbe ancora potuto salvare? Magari sarebbe deceduto comunque. L’unica certezza è che Beppe, come chiunque altro, aveva diritto ad essere curato per non spirare come una bestia in totale avvilente solitudine.

Articolo pubblicato su Libero il 3 dicembre del 2019

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