Libero per me è Vittorio Feltri. E sempre resterà Vittorio Feltri. Non già perché altri direttori non valgano. Non so se l’esistenza mi porterà lontana da questa famiglia, dove, come in ogni nucleo familiare accade, ho preso pure qualche sberla (metaforica, ovvio!), ma so che Libero sempre avrà un posto speciale nel mio cuore. Quando un pomeriggio di quattro anni fa varcai la soglia del “palazzo di vetro” in cui ha sede il foglio che oggi compie vent’anni, ero timida e forse pure un po’ fragile. Vabbè, dai, “tanto fragile”.
“Se vuoi scrivere bene devi scrivere quello che vedi. Esci, cammina e relaziona”, mi esortò Feltri senza perdersi in chiacchiere e mi congedò. A qualcuno questa frase potrà sembrare una insulsa banalità, eppure essa racchiude il più grande insegnamento che ha obbligo di assorbire un giornalista il quale intenda fare come si deve il suo mestiere. Ci tocca scarpinare, osservare, scrutare e sentire, penetrare con gli occhi le viscere delle cose. Scrivere per avere visto e non scrivere per sentito dire.
Questo me lo ha trasmesso Vittorio, a cui sono grata. Sia messo agli atti del Cielo. Poiché Vittorio mi ha fatto il dono più prezioso che si possa fare a qualcuno: la fiducia. E poi è stato severo con me, con l’aspra dolcezza di un amorevole padre. Se non sudi, se non fatichi, se non stai lì attaccata alla pagina ogni santissimo giorno, anche quando sei stanca, se non punti alla perfezione, se non te la prendi con te stessa allorché il dì successivo individui un errore che ti era sfuggito e ti domandi come diavolo sia stato possibile, una sciocchezza di cui forse nessuno si accorgerà, ma tu sì e questo basta per rovinarti la giornata, allora non arriverai mai da nessuna parte. Sia chiaro.
Posso dire di essere stata addestrata (militarmente) a Libero, perché, sebbene fossi iscritta all’ordine dal 2009 e avessi lavorato in altri giornali, è a Libero che sono sbocciata grazie a chi ha preteso il massimo da me, insegnandomi a pretendere il massimo da me stessa. Di questa fiducia mi sono nutrita, come una piantina di acqua, e nei momenti di sconforto, quelli che capitano a tutti considerato che questa professione è dura e competitiva e anche un pochino bastarda, Feltri era lì a ripetermi: “Insisti. Insisti. Chi non sogna non segna”. Parole a lui care, in quanto le ha ascoltate mille volte dal prete che si occupò della sua educazione e che lo mise su questa strada lastricata di parole, di inchiostro, di lacrime e passione, quella del giornalismo. Potrei scrivere un libro contenente tutte le lezioni apprese in questi ultimi quattro anni, e chissà, magari un domani lo farò.
Oggi Libero è ventenne. È diventato adulto. E forse un pochino anche io con lui. Ma resteremo come siamo. Ci hanno provato a cambiarci, a correggerci, ad indirizzarci, e non ci sono mai riusciti. Libero non abbassa la testa. Incassa bene i colpi. Si distingue. A differenza di altri quotidiani, è colorato, mai freddo. È irriverente come tutti i grandi. Ti sputa in faccia la verità senza ricorrere ad inutili abbellimenti, senza orpelli, senza belletto. Perché la verità deve essere cruda e fare schifo, se è il caso, altrimenti si trasforma in putrida menzogna. Libero è una voce fuori dal coro. La trincea dove si combatte una guerra santa e giusta: quella contro il detestabile “politicamente corretto” in cui la società globale campa immersa.
Libero è audace. Perché serve tanto coraggio per essere autentici. Provo gratitudine nei confronti di questo giornale che mi ha sempre permesso di essere me stessa, di esprimere il mio pensiero pure allorché questo non corrispondeva alla linea editoriale. L’opinione opposta ha trovato sempre spazio su queste pagine in quanto era come un intimo disonore per i direttori escluderla, dal momento che la carta stampata, oggi più che mai, ha il compito di offrire al lettore degli spunti di riflessione, delle prospettive diverse e plurali, che egli poi sposa o rigetta o ne sviluppa di nuove. Questo è lo scopo fondamentale dei giornali. Sollevare problemi e dibattiti. Favorire in chi legge lo spirito critico.
Grazie, Libero.