Aveva chiamato “negra” l’ex ministra per l’integrazione del governo Letta Cécile Kyenge Kashetu, che nera di fatto lo è, e quest’ultima lo aveva immediatamente querelato per diffamazione con l’aggravante dei motivi di odio razziale, come se essere definiti “negri” avesse una connotazione calunniosa e infamante ed altresì esprimesse razzismo. Ma i giudici di Macerata hanno assolto il vicesindaco di Civitanova, Fausto Troiani: il suo commento “rimane negra” pubblicato su Facebook non è né diffamante né xenofobo.

L’europarlamentare di origini congolesi, la quale crede di essere presa di mira per il colore della pelle proprio come la grillina Lucia Azzolina ritiene di essere attaccata poiché giovane e donna, ha perso la causa, a dispetto delle sue aspettative.

Da quando, sulla scia del “politicamente corretto” imperante, abbiamo dichiarato guerra al vocabolario, pure il termine “negro” è stato di colpo trasformato in una parolaccia. Eppure esso deriva dal latino “niger” e viene utilizzato da sempre per indicare le popolazioni sub-sahariane. Dobbiamo forse concludere che provenire dall’Africa nera per qualcuno, neri inclusi e Cécile inclusa, rappresenti una vergogna?

Pe noi, come per il tribunale di Macerata, “negro” non è un insulto (del resto non lo è neppure “bianco”) e tale parola non palesa un giudizio di disvalore riguardo l’etnia del soggetto indicato. In estrema sintesi, “negro” non è vocabolo in sé dispregiativo. Lo possiamo adoperare senza correre il rischio di finire in gattabuia.

Nel gennaio del 2019 la Corte di Cassazione si era spinta persino oltre, stabilendo che per effetto del decreto svuota carceri n.7/2016, il quale depenalizza quello che prima era il reato di ingiuria, anche l’insulto razzista non è più punibile penalmente. Con la sentenza n.2461/2019, la Cassazione ha annullato un giudizio di secondo grado che condannava un uomo, il quale aveva chiamato una fanciulla “sporca negra”, per il reato di ingiuria aggravato da motivi razziali. Insomma, non soltanto la parola “negro” non ha carattere oltraggioso, ma anche allorché è accoppiata all’aggettivo “sporco” non configura un illecito penale.

Ad ogni modo, sebbene non ci si macchi di un reato penalmente perseguibile, apostrofare un qualsiasi individuo con l’espressione “sporco negro” non può considerarsi comportamento civile. E chi lo fa manifesta tutta la sua stupidità.

Sarebbe opportuno a questo punto sdoganare quei sostantivi ed oggettivi oggigiorno censurati, manovrando i quali, soprattutto noi giornalisti, rischiamo di essere perseguiti e pure perseguitati. Mi riferisco, ad esempio, al termine “clandestino”. Lo scorso ottobre il giornalista Andrea Manfrin ha digitato tale nome riferendosi ai migranti che raggiungono illegalmente l’Italia e il Consiglio di disciplina territoriale dell’Ordine dei giornalisti della Valle d’Aosta ha comminato al cronista la pena di tre mesi di sospensione dall’esercizio della professione, in quanto egli avrebbe violato la Carta di Roma, recepita nel Testo unico dei doveri del giornalista, secondo cui questi “nei confronti delle persone straniere adotta termini giuridicamente appropriati” evitando “la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte riguardo a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti”.

Tuttavia, “clandestino” non è voce offensiva. Si legge sul vocabolario: “clandestino è colui che si trova od opera in una situazione irregolare, senza l’approvazione dell’autorità o contro il divieto delle leggi vigenti”. Quindi, Manfrin era ricorso ad una voce della lingua italiana priva di intenzione denigratoria ma che descrive la condizione giuridica di chi, in violazione delle norme in vigore, varca le frontiere di uno Stato scegliendo vie non legali che gli consentano di aggirare ogni regola. Del resto, non esiste alcuna norma che autorizzi i cittadini di altri Paesi a mettersi in mare per trasferirsi in Italia, addirittura senza documenti.

Un altro termine messo all’indice è “terrone”, che io stessa incastonai in un mio articolo nel gennaio del 2018 (dal titolo “Comandano i terroni”) insieme all’equipollente “polentoni”, che chissà perché non suscita mai indignazione. Lungi dall’essere sprezzante nei confronti degli abitanti del Mezzogiorno, il componimento metteva in luce un dato di fatto incontrovertibile: tre cariche istituzionali su quattro erano in quel periodo ricoperte da uomini e donne del Sud. Nulla di vergognoso, quindi. Eppure Libero fu messo in croce. E anche la sottoscritta.

È grave sintomo di superficialità guerreggiare contro le parole. Ed è disonesto strumentalizzarle per sguazzare in vittimismo bieco ed inutile, atteggiamento che appare molto in voga negli ultimi anni.

libro ali di burro

Il primo libro di Azzurra Barbuto
A 10 anni dalla prima edizione, la seconda è ora disponibile su Amazon in tutte le versioni

Acquistalo su Amazon