Sono quasi le ore 20 di domenica, primo giorno di zona rossa in Lombardia, quando usciamo di casa per raggiungere l’Osteria Dal Verme, sita nel quartiere Isola di Milano, uno dei ristoranti che aderiscono all’iniziativa “Io apro” e che quindi, trasgredendo i divieti imposti dal governo, da venerdì 15 gennaio hanno spalancato le loro porte ai coraggiosi clienti che intendano sostenerli. Le strade sono deserte e silenziose, l’atmosfera è quasi spettrale e il gelo pungente contribuisce a rendere lo scenario di questa metropoli, un tempo convulsa, delirante e insonne, ancora più tetro e malinconico. Tuttavia, qualcosa sembra ribollire nelle sue viscere, minuscoli segnali tradiscono un certo fermento, una sorta di rabbia e impazienza. È impazienza di vivere. È rabbia di non poterlo fare.

Le automobili in giro non sono poche come ci si aspetterebbe. La radio trasmette le telefonate degli ascoltatori, i quali uno dopo l’altro lamentano l’insofferenza nei confronti delle restrizioni aggiuntive in vigore da oggi. Ci si rifugia in un bene di largo consumo: la pizza. I fattorini in bicicletta vengono inghiottiti dalla notte, uno dopo l’altro, si disperdono nelle vie, nei vicoli, senza fare alcun rumore.

Eccolo lì il locale. Le gialle luci accese sul marciapiede vuoto, la gente seduta ai tavoli che si scorge già dalla vetrina, il chiacchiericcio soffocato che si percepisce da lontano. Sembra tutto un miraggio. Forse lo è. Stiamo per valicare un limite che mai abbiamo oltrepassato e che mai avremmo immaginato di superare: quello tra ciò che è legale e ciò che è illegale. Eppure riflettiamo riguardo il fatto che non sempre ciò che è legittimo sul piano formale corrisponde a ciò che è universalmente giusto, lo insegna la storia. Esistono le regole inique e crudeli, quelle ad esempio che calpestano e soffocano valori assoluti e non derogabili del diritto o principi fondativi della Repubblica democratica italiana e della sua Carta, come il lavoro, e infrangerle talvolta diventa un dovere morale a cui si sottraggono soltanto i vigliacchi, i rassegnati, coloro che il mondo lo abitano ma non lo cambiano.

Entriamo nel locale. Senza esitazioni. Il clima è da Carboneria. I presenti non si conoscono e fino a qualche mese fa si sarebbero del tutto ignorati, concentrandosi soltanto sul proprio commensale e il proprio piatto. Invece oggi è tutto diverso. Essi sono estranei uniti da sentimenti, desideri e pensieri che li accomunano e li avvicinano. E si scambiano sorrisi complici. E si guardano con una espressione di compiacimento ed approvazione. Si fa parte tutti della medesima squadra. Si è lì per le stesse ragioni. Si sta conducendo coesi una protesta che assomiglia di più a una battaglia combattuta brandendo forchetta e cucchiaio.

La primavera del 2020, quella dei canti sul balcone, degli hashtag “andrà tutto bene”, o “stai a casa”, è alle spalle da un bel pezzo. Ora la maggior parte degli italiani è smaniosa e intollerante. Essi non trovano più affiatamento e convergenza nello stare rinchiusi in casa, bensì nella febbre che li induce a ribellarsi alle chiusure, che risultano vane, insopportabili e prive di senso. Ma l’esecutivo, impegnato com’è nel tentativo di restare in piedi, non si rende conto di questo rinnovato spirito né del pericolo che esso cela. O probabilmente sottovaluta determinati segnali.

Le più grandi rivoluzioni sono forse partite proprio dalle osterie, dai bar, dalle taverne dove gli esseri umani possono confrontarsi, scambiarsi opinioni, socializzare, attività quest’ultima messa al bando poiché favorisce il contagio del virus più temibile, quello delle idee. A noi questo ristorantino aperto questa sera sembra l’estremo piccolo baluardo della democrazia. Qui ognuno fa la sua modesta ma grandiosa resistenza, a cominciare dal proprietario il quale ci confida: “Ad un certo punto mi sono detto che se proprio devo fallire e morire, preferisco farlo lottando, in piedi, nel mio locale, e non a casa, buttato sul divano come un sacco dei rifiuti. Quindi ho aperto. Qui sono impiegati individui che, se gli viene vietato ancora di lavorare, per campare prima o poi saranno costretti per forza a delinquere. Mica ci sono alternative!”. Da un tavolino posto in un angolo giunge un grido: “Libertà!”. Qualcuno gli fa eco dalla parte opposta della saletta. Una signora urla: “Vi voglio bene. Vi ammiro per essere qui”. L’aria diventa sempre più effervescente, addirittura elettrica.

Sempre restando compostamente seduti, da una postazione all’altra, i clienti barattano nomi di pagine e gruppi creati sui social network dove reperire informazioni sulle prossime manifestazioni contro Giuseppe Conte e i suoi dpcm. Non sono i divieti a produrre reazione e tumulto, bensì il loro eccesso, che viene considerato e patito come fosse un mero accanimento. L’errore dell’esecutivo è stato quello di credere che tutto, pandemia inclusa, possa risolversi per mezzo delle proibizioni, non importa quanto reiterate. Però veti, inibizioni, limitazioni non hanno nulla di fattivo, solo di preclusivo.

Tra risate, applausi, brindisi, la serata è volata via e sta per scattare il coprifuoco. La polizia non è arrivata. Nessuna soffiata. Nessun controllo. “Gli agenti sono passati la prima sera di apertura. Hanno preso i nomi dei clienti, si capiva che lo facevano per obbligo, ma che comprendono la nostra disperazione”, racconta il ristoratore.

Quando lasciamo l’Osteria il silenzio che avvolge Milano pare ancora più profondo. Fino allo scorso anno ci si recava a cena fuori alle 21:30/22, oggi a quest’ora si volge a casa. Come sono mutati in brevissimo tempo i nostri usi e costumi…Come siamo mutati noi. Tuttavia non siamo ancora vinti.

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