Mancava soltanto il Covid perché le già complicate relazioni amorose si complicassero ulteriormente. Prima c’è stata per gli accoppiati (poi scoppiati) la convivenza forzata tra le mura domestiche, senza alcuna chance di evasione se non quella di fare un salto al supermercato più vicino o direttamente un salto dal balcone, per i single invece una solitudine divenuta totalizzante a causa della impossibilità di incontrare gli altri e quindi anche potenziali partner. Finita la lunga quarantena, con le prime timide aperture, seguite da repentine chiusure, ci siamo resi conto che, singoli o impegnati che fossimo, non eravamo più gli stessi.
Una diffidenza verso l’altro si era ormai impadronita di noi, persino una intolleranza, una paura che ci faceva allungare il passo se il tizio incrociato per strada emetteva un colpetto di tosse. Il terrore è così, si insinua in noi senza che ce ne accorgiamo e poi ci tiene sotto scacco. Esso ci condiziona. Il distanziamento fisico è divenuto altresì distanziamento emotivo, ibernazione dei cuori e delle anime. Lontani gli uni dagli altri, l’uno dall’altro, ci percepiamo al riparo, non corriamo alcun rischio di infettarci, di contaminarci, di coinvolgerci, di ammalarci, di soffrire, di innamorarci, di sentire qualcosa che non sia lo squallido niente che ci circonda.
Mi hanno impressionata le parole di una signora che qualche settimana addietro ho incrociato nel centro di Como. Portava a spasso un cane tenerissimo, al quale avrei voluto porgere una carezza. La donna me lo ha impedito affermando: “È una fase in cui le distanze ci rassicurano”. Ma come? Cosa diamine significa? Non erano gli abbracci a rassicurarci, poggiare il nostro viso sulla spalla dell’altro, ritrovarci avvinghiati tra due braccia e avvertire un solo unico timore, ovvero che quella presa terminasse, che si sciogliesse, che gli arti dell’altro si staccassero da noi, lasciandoci di nuovo scoperti, senza protezione? Com’è che ora ci consideriamo tutelati allorché l’altro se ne sta ad almeno due o tre metri da noi, solamente se porta una mascherina, se si è sottoposto ad una vaccinazione, meglio se tripla, se è munito di green pass, anzi di super green pass dato che ci piace andare sul sicuro?
L’amore è diventato impossibile, eppure il bisogno di amare ed essere amati è divenuto disperato. È l’ignorato e seppellito urlo che proviene dalle viscere di una società abitata da individui che compulsivamente sterilizzano ogni cosa, mani, cibi, telefonini, cuori, che usano filtri sui social per nascondere come sono davvero, o forse chi sono davvero, persone che adoperano mascherine e pure guanti in lattice per non entrare in contatto nemmeno con ciò che devono necessariamente toccare. Tutta questa igiene non produce igiene mentale. Tutta questa precauzione ci condurrà ad ammalarci. O forse siamo già malati.
Me ne convinco quando in un negozio un avventore strilla lamentando che chi alla casa sta in fila dietro di lui non stia osservando la distanza indispensabile o non indossi come si deve il dispositivo di protezione individuale. “È per effetto di questi comportamenti che moriremo tutti”, incalza l’ipocondriaco e nessuno che osi contraddirlo. Come diavolo possiamo innamorarci se tutti ci appaiono nemici, probabili vettori di infezione, materializzazione di remote paure, pericoli?
Pure virologi, epidemiologi, scienziati hanno fornito i loro non richiesti consigli alle coppie: non fate sesso, non vi baciate, non dormite nello stesso letto, al massimo potete tenervi per mano, ma ricordate di disinfettarle bene prima e dopo, copritevi con la mascherina anche in casa o mentre fate l’amore, se proprio non potete fare a meno di farlo perché siete degli irrimediabili porci incapaci di contenere i propri istinti. L’amore carnale era peccato. Ora è addirittura un crimine: si rischia il reato di epidemia colposa.
Ci mettiamo troppa scienza, troppa scemenza, troppa testa, mentre servirebbe un po’ tanto di cuore per passare dalla parte della ragione, ragione che ormai è smarrita. Cuore unito a scambio di sguardi, di salive, di microbi, mescolamenti da cui i sistemi immunitari sono sempre usciti rafforzati traendone quindi giovamento l’umanità intera.
E adesso si pone un problema gigantesco: una volta che la Covid-19 sarà diventata endemica e avremo imparato a convivere con il virus ma disimparato a convivere tra di noi e i nostri organismi non patiranno più l’attacco frontale del corona e delle sue varianti, come riusciremo ad abbattere, o almeno ad abbassare, le barriere che ciascuno di noi si è costruito attorno? A stare soli purtroppo ci si abitua. A fare a meno degli altri, a campare senza contatto fisico, a sopravvivere senza emozioni, altrettanto. E quando ci saremo assuefatti a tutto ciò e rifiuteremo tutto il resto, per la fobia di fotterci il cuore e non più soltanto i polmoni, fino a che punto potremo ritenerci ancora umani?
Si è umani se non si rischia mai, se ci si concede sì ma mai veramente, se ci si dà sì ma soltanto a metà, se ci si vuole bene sì ma sempre dalla dovuta distanza, se si guarda all’altro con sospetto e non con tenerezza, se non ci si fida e non ci si affida, se ci si preserva più dalla vita che dalla morte? Perché, ammettiamolo, è la vita a farci così fottutamente paura. E non il trapasso. E il coronavirus è la scusa perfetta per non viverla e seguitare a dare la colpa a qualcun altro. Chicchessia.