Divieto di toccarsi, sfiorarsi, avvicinarsi, baciarsi, abbracciarsi, porgersi la mano, stare seduti allo stesso tavolo se si è in più di quattro persone e non conviventi, di uscire dopo le 23, di parlarsi all’orecchio. La sfilza dei comportamenti messi al bando è lunga e corposa e già domani potrebbe essere ancora più pesante. C’è aria di lockdown nelle grandi metropoli e la gente è divisa tra la paura di vivere e il desiderio di farlo.

Ogni grande epidemia ha lasciato dei segni sulla comunità colpita. E anche il corona ha già in qualche modo trasformato i nostri usi. L’altro ci appare sempre di più alla stregua di una minaccia, un potenziale infetto che può a sua volta infettarci, un portatore sano di quello che viene descritto come un virus terribile, sebbene nella stragrande maggioranza dei casi non dia alcun sintomo.

In questi mesi mi è capitato di stupirmi per eventi che fino a meno di un anno fa non mi avrebbero meravigliata: l’abbraccio caloroso di un amico che mi incontra casualmente per strada dopo mesi di isolamento totale, una persona che tende la mano per salutarmi, un’altra che osa di più, addirittura un bacio sulla guancia. E ad ognuno di noi è capitato, ci giurerei, di domandarsi se non sia troppo audace un bacetto sulla gota. Vorremmo darlo ma non siamo autorizzati. C’è sempre il timore di violare il diritto dell’altro al distanziamento sociale.

Quei due metri che sono stati posti e imposti tra ciascuno di noi e il prossimo rischiano di diventare una sorta di prigione che ci impedisce di entrare in contatto con chi ci sta davanti. Non perché occorra per forza toccarsi per avvicinarsi, conoscersi, creare intimità. A nuocere è soprattutto quella paura che ci viene inoculata da 8 mesi, è quella a deperire le relazioni. Tuttavia viene considerata salvifica da politici ed esperti, i quali ci ricordano in continuazione che ogni misura adottata è stata studiata per distanziarci. Per il nostro bene. E per il bene collettivo. La chiusura dei ristoranti, il coprifuoco alle 23, la sigillatura dei bar e di qualsiasi altro locale dalle 18 svolgono questa funzione qui: non farci incontrare. Isolarci. Allo scopo di impedire la diffusione del contagio. Del resto, non abbiamo altri strumenti per difenderci dal covid-19. Dobbiamo ricorrere a codesti mezzi primitivi.

L’individualismo esasperato della nostra società dovrebbe sposarsi bene con queste nuove regole del vivere sociale. Stare chiusi in casa il più possibile, sfuggire dagli altri il più possibile, allontanare chiunque il più possibile, prima erano tendenze, oggi sono vere e proprie norme. C’è chi aveva già una socialità ridotta e dunque poco ne soffre e chi, invece, conduceva una esistenza mondana e frivola e patisce ora terribilmente le limitazioni a cui siamo obbligati.

Eppure il prossimo confinamento, dopo quello già subito da marzo a maggio, pesa a chiunque di noi. Ci deprime. Pure perché si annuncia più lungo rispetto al primo, abbiamo davanti il resto dell’autunno e poi tutto l’inverno e poi parte della primavera. E questi avrebbero dovuto essere mesi felici e sereni, trascorsi in un clima natalizio di letizia. Invece no. Andiamo avanti a singhiozzi, tra un dpcm e un altro, e le nostre libertà vengono sempre più circoscritte, compresse, ridotte, ostacolate. Avevamo appena recuperato la speranza e la stiamo perdendo.

Ci abitueremo a non incontrarci più o avremo ancora più voglia di incontrarci? Ci adegueremo alla distanza o la vinceremo per il desiderio di trovarci? Ci blinderemo nel nostro perimetro o lo scavalcheremo per varcare il perimetro altrui? Rispetteremo tutte le regole o decideremo di infrangerne per una buona volta qualcuna correndo i rischi che da sempre corriamo quando ci avviciniamo a un estraneo: ammalarci, spezzarci il cuore, innamorarci, imparare, crescere, arricchirci, soffrire, gioire, ridere, piangere, vivere.

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