“Vietato piangere”. Seguiva il feretro impugnando un cartello contenente questo ordine un giovane uomo, che faceva parte di un drappello di altri uomini, i quali tutti camminavano composti come soldatini, con i tratti del viso calcificati in una espressione che non poteva dirsi triste ma neppure felice, ma soltanto concentrata. Mi ha colpito questa immagine. Me l’ha descritta Vittorio Feltri, quando qualche giorno fa parlavamo della maniera che ognuno di noi ha sviluppato, in base alla propria educazione, di manifestare le emozioni, brutte o belle che siano. Egli era un bimbetto quando, nel cuore di Bergamo, vide scorrere questa scia funebre, e gli restò impresso nella memoria quel divieto: sì, qui abbiamo un morto, ma che nessuno si sogni di piagnucolare, sia chiaro. Chi lo sa se si trattava di una precisa indicazione dettata dal defunto quando ancora era in vita? O forse era un desiderio dei suoi congiunti, allergici a quei lamenti insopportabili che, se fatti in solitudine scaricano, alleviano il dolore, ma, se fatti in gruppo, lo accentuano, appesantendolo.

Di sicuro è una questione, appunto, di educazione. Un tempo estrinsecare le sensazioni era quasi un atto indecente, un mettersi a nudo, quindi un mostrarsi senza difese, scoperti, fragili. Oggi non lo è più. Chi non nasconde ciò che prova adesso non è più considerato debole e indecoroso, bensì semplicemente umano. E il senso di umanità piace, ne abbiamo bisogno, ci rassicura, ci fa sentire uniti, ci avvicina, ci migliora. Accorgersi della sofferenza altrui, confrontarci con essa, comprenderla sono operazioni che favoriscono l’empatia, ci rendono più sensibili e ci inducono a capire meglio noi stessi. Il confronto con quello che sentono gli altri è talmente giovevole che è stata inventata la cosiddetta “giustizia riparativa”, ossia quel meccanismo che porta il reo e la vittima ad incontrarsi, affinché il primo si renda conto del patimento che ha arrecato alla seconda e questa ultima possa superare i sentimenti negativi e pure il trauma che derivano dal danno subito, rimarginando la ferita e spalancando il cuore al perdono. Un progresso per entrambi.

Personalmente non mi preoccupano coloro che esprimono le proprie emozioni, piuttosto mi fido poco di coloro che non le esprimono mai, che le soffocano nello stomaco, dove ribollono per poi detonare. Ogni emozione inespressa, quindi repressa e rigettata, secondo diversi studiosi, può trasformarsi in un acciacco, in un male, in un sintomo fisico, in una patologia. Tanto vale allora tirare fuori tutto. E pure piangere, se è il caso. Non è vietato né alle donne né agli uomini, né ai bambini né agli adulti. Non può essere mica proibito ciò che è assolutamente naturale.

Assistiamo negli ultimi mesi, anzi già dallo scorso anno, come hanno confermato i dati Istat, ad un aumento delle violenze in famiglia, omicidi inclusi. Il 2020 è stato l’anno in cui gli omicidi hanno toccato in Italia i numeri minimi storici, eppure sono cresciuti quelli avvenuti all’interno del nucleo familiare, ossia tra consanguinei. In particolare, troppo spesso la cronaca ci sta raccontando di figli che ammazzano i genitori, figli che covavano sentimenti di rabbia e di odio, uniti ad una cieca brama di annientare, ossia cancellare, coloro che li hanno dati alla luce. Questi sentimenti non insorgono all’improvviso nell’animo di un individuo, bensì vengono alimentati e coltivati per lustri. Com’è che nessuno si accorge della loro esistenza? Come si può passare dalla calma piatta, dalla normalità quasi monotona, al fatto di sangue? Se le emozioni fossero state estrinsecate di volta in volta e non fossero state lasciate esplodere in modo tanto devastante, anzi atomico, questi delitti sarebbero avvenuti?

Allora che l’educazione alle emozioni faccia ingresso nelle case, pure perché ne abbiamo esigenza più che mai, stressati come siamo da una pandemia che ha sconvolto le nostre esistenze portando a galla le nostre vulnerabilità, che non si dica mai più al pargoletto “non piangere”, che non gli si dia mai più uno schiaffo perché lo fa, gesto che ho visto compiere a padri e madri, che non si esiti a dichiarare “ti voglio bene” e che alla stessa maniera non si esiti a rivelare “mi sento arrabbiato”, o trascurato, o solo, o disperato, illustrando i motivi. Le emozioni sono nostre amiche, sia quelle positive che quelle non positive, si trasformano in nostre nemiche solamente allorché noi le rinchiudiamo nel ripostiglio. Concediamoci dunque di essere emotivi.

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