Abita da millenni le acque blu cobalto dello stretto di Messina e già gli antichi greci ne cantavano la fedeltà. Essi narravano infatti che, morto il pelide Achille, i valorosi guerrieri che lo avevano accompagnato dalla Tessaglia nella guerra di Troia, ossia i Mirmidoni, decisero di vendicarlo attaccando i troiani, i quali, per evitare la rappresaglia, si diedero alla fuga. Allora i Mirmidoni, distrutti dal dolore, vollero andare incontro alla morte, gettandosi in mare. Ma Teti, divinità delle acque marine nonché madre del semidio, commossa nel constatare quanto i guerrieri amassero suo figlio, trasformò ciascuno di loro in un esemplare di pesce armato, ma dall’animo gentile: nacque così il pesce spada.
Ancora oggi si dice che la lingua greca attiri questo pesce straordinario, per questo i pescatori lo incantano intonando cantilene incomprensibili, tramandate di padre in figlio nel corso dei secoli, e comunicano tra loro mediante parole di origine greca durante le battute di pesca tra Scilla e Cariddi, che avvengono a bordo di caratteristiche imbarcazioni, le spadare, munite di un altissimo albero di vedetta e di una lunghissima passerella per il fiocinatore.
Teti aveva donato al pesce spada l’eternità. Eppure oggi questo pesce possente e maestoso rischia l’estinzione. A lanciare l’allarme è stato il WWF a novembre scorso, quando ha chiesto alle 48 nazioni che fanno parte dell’ICCAT, ossia dell’International Commission for the Conservation of Atlantic Tunas, riunite a Vilamoura, in Portogallo, di porre dei freni al sovra sfruttamento del pesce spada nel Mediterraneo, al fine di scongiurare il collasso della specie. In quell’occasione il WWF ha reso noti alcuni dati: le catture del pesce spada sarebbero diminuite del 50% negli ultimi 20 anni e il 70% di queste interesserebbe esemplari allo stadio giovanile (da 0 a 3 anni), uccisi ancora prima di riprodursi.
È già iniziata da un po’ la stagione della pesca del pesca spada, che tra giungo ed agosto si avvicina alla costa calabrese a quella siciliana per riprodursi, eppure di esso non c’è quasi traccia. Avvistarlo è di anno in anno sempre più raro. E le spadare dai colori sgargianti continuano a scivolare agili sulle acque dello stretto come sopra l’olio, tagliandolo in lungo ed in largo, in cerca di un guizzo, di un movimento, di un agile salto di un pesce spada felice ed innamorato. Ma la sua spada un appare, non viene brandita, non affiora dalle acque, che restano immobili. Senza vita.
È morto il pesce spada. E stavolta non di dolore. Lo abbiamo ucciso. O lo abbiamo offeso, e lui non viene più nei nostri mari per vivere la stagione più felice della sua intera esistenza: quella dell’amore. È un animale romantico il pesce spada, sebbene solitario. Non si lega facilmente, ma quando si innamora, è per sempre. I pescatori lo chiamano “il cavaliere dei mari”. Lo uccidono, ma lo rispettano. E questo non desta stupore al Sud.
La tradizione vuole che uno dei pescatori, escluso colui che lo ha arpionato, incida con le sue dita sulla guancia destra del pesce una croce quadrupla, simbolo di benedizione. Il pesce spada muore da eroe, con dignità, sebbene tutto questo non lo risparmi dallo scempio del suo cadavere. Come ci ha raccontato persino Domenico Modugno nella sua canzone “‘U pisci spada”, i pescatori usano un metodo infallibile per garantirsi un abbondante pescato.
Avvistata dalla vedetta la coppia di pesci spada in mare, l’uomo sulla punta estrema della passerella della spadara colpisce al cuore con il suo lungo arpione la femmina, mentre nuota felice ed ignara del pericolo che incombe su di lei e sul suo compagno. È un colpo mortale, l’arpione appuntito le penetra la carne liscia e compatta. Il sangue esce copioso dalla ferita e l’animale manifesta la sua sofferenza, sebbene non possa urlarla. Cerca di svincolarsi, ma non ce la fa, è sempre più debole.
L’acqua blu cobalto diventa rossa, poi nera, ed in quel nero viene trascinata la femmina, alla quale i pescatori allungano la corda che la tiene vincolata alla barca, affinché abbia l’illusione di potersi allontanare. È un’agonia lunga e crudele, che alla fine porterà la femmina a morire dissanguata, dopo avere strenuamente lottato per la sua libertà. Ma essa non è morta da sola, a farle compagnia, a darle coraggio e a cercare di proteggerla dalla bestialità dell’uomo c’era il suo compagno, accanto a lei lungo tutto il tragitto. Alcuni pescatori raccontano di essere stati assaliti qualche volta dal maschio che, preso dalla disperazione, arriva a colpire con la sua spada l’imbarcazione, speronandola, nel tentativo di salvare o vendicare la sua amata.
Neanche quando il pesce spada femmina muore, il maschio l’abbandona. Esso continua a seguire la spadara. Anzi, giunto ormai nelle acque basse dove non può più nuotare, con un salto disperato si consegna agli assassini della sua compagna, per morire insieme a lei.
Perché vivere senza di lei non ha più senso. È così che muore un cavaliere. Il cavaliere dei mari.
La sua testa mozzata con la lucente spada sguainata verrà esposta sul bancone di una pescheria qualsiasi. Lontano da quella della sua compagna, finita chissà dove. Ma se presterete attenzione, sì, se guarderete attentamente, ignorando per un attimo le urla assordanti del pescivendolo e le richieste delle signore che vogliono accaparrarsi le parti migliori da cucinare, negli occhi atterriti di quel pesce spada fresco potrete leggere tutto l’umido dolore. Di un innamorato a cui non resta nient’altro da perdere che la sua stessa vita.
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articolo pubblicato su Libero 13 giugno 2017