È un Vittorio Feltri sconosciuto e sorprendente quello che si racconta nel libro “Il borghese”, edito da Mondadori. Il cronista, come ama definirsi egli stesso, sempre impeccabile nel vestire, dalla prosa cruda e tagliente, dai toni accesi e provocatori, svela tra le pagine della sua nuova opera sfaccettature intime, pensieri, emozioni, persino debolezze, quelle che appartengono ad ognuno di noi. “Il cinismo non è che un rifugio della sensibilità”, osserva il direttore di Libero. E queste parole hanno il chiaro suono dell’autodenuncia, dell’ammissione scomoda, che non si vorrebbe fare neanche a se stessi.

È un borghese l’io narrante, un giornalista, un direttore che ha segnato record di vendite, ma soprattutto un uomo, che nel corso della sua esistenza ha contato solo su se stesso e che con coraggio ha abbandonato appena ventenne una strada sicura, ossia un posto di lavoro pubblico, per intraprendere l’incerta carriera giornalistica. Una temerarietà che in breve tempo lo ha premiato portandolo dall’Eco di Bergamo al Corriere della Sera e poi alla guida di prestigiosi quotidiani nazionali, fino alla fondazione di quello che considerare il suo quinto figlio: Libero.

Senti di essere diventato un borghese?

“Sono solo un cronista, assistito dalla fortuna, che è riuscito ad occupare posti importanti nella stampa italiana e ciò ha stupito innanzitutto me stesso. Ho iniziato pulendo le scale e consegnando il latte ritrovandomi poi inviato speciale del Corriere”.

Quindi senza che te ne accorgessi l’ascensore sociale ti ha portato in cima?

“Coltivavo il sogno di scrivere, non quello di fare la scalata sociale”.

È anacronistico parlare di classi?

“Esse esistono ancora, sebbene la borghesia sia cambiata a partire dal 1968. Oggi il piccolo borghese è estinto, lasciando il posto ad una massa di persone che non aspirano a progredire socialmente. Più su abbiamo il ceto medio, poi la borghesia, alla quale appartengo per reddito e stile di vita, ed infine l’alta borghesia”.

Per chi vota il borghese?

“Molti, per sentirsi fighi oltre che per una sorta di snobismo, votano a sinistra, ma sono una minoranza sempre più esigua. Il borghese sceglie soprattutto Salvini”.

Qual è il politico più borghese?

“Silvio Berlusconi è l’alto borghese per eccellenza. Matteo Renzi rappresenta quello medio”.

Quanto è importante la volontà nel raggiungimento dei nostri obiettivi?

“Esiste un’equazione perfetta costituita da sogni e determinazione. Se manca uno o l’altro di tali elementi, non ce la fai”.

Nel tuo libro accosti alle memorie legate a figure celebri il ricordo della zia Tina e del sacerdote che ti fece da maestro. Perché questa scelta?

“Fu la zia a darmi i rudimenti della professione, insegnandomi a leggere e a scrivere all’età di cinque anni. Insieme sfogliavamo i giornali che arrivavano a casa, fu in quel periodo che si insinuò in me la voglia di fare questo mestiere. Anche il pretino ha inciso sulla mia formazione, guidandomi negli studi. Mi sembrava giusto rendergli omaggio”.

All’età di sei anni sei rimasto orfano di padre. Monsignor Meli è stato per te una sorta di papà acquisito?

“Credo che lui stesso vedesse in me un figlio, univa durezze e tenerezze. Si è dedicato a me con amore, arricchendo il mio bagaglio culturale”.

Chi sono le donne della tua vita?

“Ce ne saranno duecento. (Ride). La più importante è stata ed è mia moglie. Mi ha sposato quando avevo già due gemelle, le ha cresciute, abbiamo avuto altri due figli, ha mandato avanti la casa, intanto lavorava, prima alla Mondadori, poi a Mediaset. Enoe è una tosta, è stata per me un’altra educatrice”.

E poi c’è l’amicizia con Oriana Fallaci, che ha voluto trascorrere a casa tua le ultime settimane di vita.

“Le misi a disposizione la mia abitazione milanese, ogni dì andavo a trovarla. È stato un rapporto burrascoso, perché Oriana aveva una franchezza sgradevole e questo ci ha portati a litigare, eppure dopo ogni discussione l’affetto si consolidava. Una volta la mandai al diavolo, dopo qualche giorno mi chiamò come se nulla fosse”.

In mezzo a tanti professionisti illustri Oriana è l’unica collega di genere femminile a cui dedichi un capitolo. Era un po’ un uomo ?

“No, anzi una volta osai definirla “uoma” e lei si imbestialì. Era molto femminile anche nell’abbigliamento. Nella corrispondenza con i suoi amori rivelava un carattere appassionato. Oriana viveva i sentimenti in modo adolescenziale”

In questo volume narri di Maria Luisa, la tua prima moglie, morta per complicanze legate al parto. Mi ha colpito il sogno che per anni ha tormentato le tue notti, in cui lei ti correva dietro scalza e tu non riuscivi a fermare l’automobile…

“Un incubo. La sua perdita mi ha traumatizzato perché era la prima volta che vedevo morire una coetanea. Non dimenticherò l’immagine di lei nella bara: i piedi nudi, il tailleur beige, il viso pallido. Ebbi un mancamento”.

Possiamo dire che sei stato un ragazzo padre?

“Sì, cambiavo i pannolini, davo il biberon, facevo i bagnetti, preparavo le pappe. All’occorrenza si impara tutto”.

La tua esistenza è costellata di femmine forti ed indipendenti. Sei attratto da questo modello?

“Le donne sono tutte così. Sono convinto della superiorità del gentil sesso, che anche sul lavoro dimostra di possedere più tenacia, preparazione e grinta. Inoltre, la compagnia delle signore è più piacevole rispetto a quella dei signori. Ho tante amiche, con le quali non c’è niente di erotico: ci confidiamo, chiacchieriamo, ridiamo, pranziamo e ceniamo insieme”.

Hai una parte femminile?

“Senza dubbio nel senso estetico”.

Sei considerato uno uomo raffinato. Cosa rende elegante una fanciulla?

“La semplicità. Odio gli eccessi, come i tacchi troppo alti, o le scollature esagerate”.

Hai lavorato anche come vetrinista tra i 15 ed i 16. Esiste un filo conduttore tra questa attività e quella di direttore?

“Le vetrine sono come i giornali. Per comporre la prima pagina si fa la cernita tra le notizie che potrebbero interessare il lettore, allo stesso modo chi addobba la vetrina cerca di ingolosire il passante”.

Ti piacciono le vetrine odierne?

“Solo quelle di Dolce&Gabbana, per l’opulenza”.

Il collega a cui sei più legato?

“Indro montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca hanno influito nella maturazione del mio stile. Mi hanno ispirato. Ma mi tenevano alla dovuta distanza, costituivano una sorta di direttorio della grande stampa. Non avrebbero mai immaginato che uno come me, arrivato dalla provincia, avrebbe raddoppiato le vendite del Giornale”.

Molti credono che tu e Montanelli foste nemici. È così?

“No, il giorno dell’uscita del mio primo saluto ai lettori del Giornale, alle ore 11 ricevetti la telefonata del direttore uscente, Indro, che mi fece i complimenti per il mio articolo di fondo. Lapidario, infine, mi disse che gli dispiaceva solo di non averlo firmato lui. Apprezzai la sua signorilità”.

In un capitolo scrivi che devi tanto a Berlusconi. Perché?

“Il cavaliere mi ha strapagato, e lo ha fatto con generosità. Mi regalò addirittura il 6% del valore complessivo del Giornale”.

Da “Il borghese” emerge un Vittorio che non ci saremmo mai aspettati, tenero…

“Allorché ti ritrovi davanti al foglio bianco sei molto più vero rispetto a quando ti presenti in pubblico e hai la necessità di difenderti”.

Difenderti da cosa?

“Forse da tutto, forse da nulla. Eppure mettere la corazza ci fa sentire più forti. Lo facciamo tutti: preferiamo apparire cattivi che vulnerabili”.

Articolo pubblicato su Grazia nel settembre del 2018

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