Essere sequestrati è come morire. Dal nulla vieni sradicato dal tuo mondo, privato dei tuoi affetti, delle tue sicurezze, della tua libertà, di tutto ciò che sei e di tutto ciò che hai. Scompari. Per un tempo indefinito che può essere: per sempre.
Tutto questo fa più orrore quando le vittime di una violenza tanto disumana sono i bambini. Molti di loro non sono più tornati a casa.
È finita l’epoca dei sequestri di persona in Italia, frequenti tra la fine degli anni ’60 ed i primi anni ’90. Si tratta di alcune delle pagine più terribili della nostra storia, che hanno lasciato profonde ferite nel nostro Paese e in coloro che, sia in prima persona che in modo indiretto, hanno vissuto questa esperienza.
Uno di questi è Vincenzo Diano, 46 anni, sequestrato dalla ‘ndrangheta il 27 luglio del 1984, all’età di 10 anni, a Lazzaro, una località sulla costa ionica a pochi chilometri da Reggio Calabria, mentre giocava con la sua sorellina vicino casa. Una macchina ha iniziato a sbandare verso di lui, fino a colpirlo con il paraurti per isolarlo contro una recinzione.
Quattro uomini travestiti con parrucche sono scesi dall’auto e lo hanno braccato, mentre lui cercava di avvinghiarsi disperatamente all’unico baluardo che gli restava, ossia la rete alle sue spalle. Una vera e propria partita di caccia. Ad essere catturato da queste bestie un cucciolo di essere umano, per un ricco bottino, ossia un miliardo delle nostre vecchie lire.
Da qui un vortice buio, un profondo buco nero che inghiottisce il piccolo Vincenzo. Forse per la paura perde i sensi, o viene sedato, o stordito. Non lo sa. Sa soltanto che quello è l’inizio del suo inferno, durato 72 giorni. Ben 1728 ore senza piangere, senza ridere, senza una carezza, o un abbraccio, senza risposte, senza muoversi, senza distinguere il giorno dalla notte. Un tempo che nessuno potrà restituirgli mai. Gli è stato rubato.
I ricordi interrotti riprendono il via su una stradina di montagna, è una salita, Vincenzo sente il terreno sotto i suoi piedi. Il viso è coperto da una busta di plastica che gli toglie l’aria, lo soffoca. Sono ancora pochi piccoli passi verso quello che sarà il suo giaciglio per quei due mesi e mezzo: quasi un loculo di mattoni e legno, ricavato dentro una casetta, stretto, lungo quanto basta per contenere un bambino, buio. Lì trova l’essenziale: una vecchia copertina a scacchi colorati, un antico pentolone da usare per i suoi bisogni, un piccolo materassino di gomma, alto non più di 3 o 4 cm, posto sulla superficie dell’antro.
A fare compagnia al bambino arrivano solo i topi, forse è notte, ma Vincenzo non lo sa. L’oscurità è perenne. Raccoglie i quattro lembi della sua coperta, li passa tra le gambe e si chiude come dentro un sacco, per proteggersi da quei topi che sono lì a mordicchiare tutto ciò che possono. Qualcuno ogni giorno gli porta qualcosa da mangiare. Il cibo gli viene passato attraverso una fessura, dentro una scodella. Quanto basta per tenerlo in vita: un pezzo di pane vecchio e un bicchiere di latte, o un po’ di pasta.
Vincenzo sarà rilasciato la sera del 7 ottobre del 1984, in località Santa Trada, a pochi chilometri da Reggio Calabria. In quei giorni papa Giovanni Paolo II si trovava in città e tutte le forze di polizia avevano sospeso le ricerche. I sequestratori, che avevano già ricevuto il riscatto da alcuni giorni, approfittarono di questo momento per agire.
Vincenzo fu tirato fuori dal suo nascondiglio. Fu costretto a camminare, ma dopo pochi passi cadde a terra: aveva ormai perso la mobilità a causa del prolungato immobilismo. Disse ai suoi sequestratori: “O mi aiutate o mi sparate direttamente qui. Non posso muovermi”. Qualcuno prese il suo esile corpicino in braccio e rispose: “Non ti uccidiamo. Ti liberiamo”.
Vincenzo, preso da un uomo sulle spalle, allungò il braccio per aggrapparsi meglio e mise la mano sulla bocca di colui che lo reggeva. Questi allora gli diede un morso terribile. Anche in questo caso, Vincenzo non pianse. Non fiatò. I suoi occhi erano coperti con diversi strati di scotch da imballaggio. Il bambino ed i suoi rapitori camminarono per i boschi dell’Aspromonte per diversi giorni, per eludere qualsiasi rischio di essere catturati dalle forze di polizia.
Alla fine, Vincenzo fu spinto fuori da una macchina. Gli fu ordinato di contare fino a 1000 prima di togliere il bendaggio. Egli era certo che arrivato al 3 lo avrebbero sparato. Invece poi il colpo non arrivò. Continuò fino a 1000. Poi liberò gli occhi e fermò un’auto sul ciglio della strada.
“Sono stati necessari tanti anni per superare ciò che mi è successo. Crescendo ci si domanda il perché. Si vuole scoprire il senso di qualcosa che appare insensata, ingiusta. Ne sono uscito davvero solo quando ho capito che solo io avrei potuto dare un significato a questo evento che, mio malgrado, fa parte di me e della mia esistenza”, ci spiega Vincenzo, che incontriamo presso la sede principale dell’Università eCampus, sita nell’ex centro IBM di Novedrate, in un campus immerso nel tranquillo verde della Brianza. Vincenzo fa parte del consiglio di amministrazione dell’università, una nuova avventura professionale intrapresa una decina di anni fa, quando ha deciso di lasciare la Calabria, nonostante la sua famiglia abbia lì attività di successo, per mettersi in gioco in un nuovo ambito professionale in cui crede molto.
Oggi Vincenzo è un uomo, ma quel bambino rapito, che ha affrontato la sua detenzione con dignità e coraggio, resterà per sempre nel fondo del suo cuore. “Alcuni eventi della vita ci tocca subirli, come la perdita di una persona cara, o una malattia. In questi casi, però, una scelta ci è ancora data: possiamo decidere come affrontare ciò che ci accade. O ci lasciamo andare o cerchiamo di trarne un valore, un senso, che renda migliore noi, la nostra vita e quella di chi ci sta accanto”, osserva Vincenzo. Gli chiediamo allora quale sia il significato positivo che è riuscito a dare al suo sequestro.
“Dare un senso. Lo fai per sopravvivere e per andare avanti. Forse se non mi fosse accaduto tutto questo, non avrei amato così profondamente la vita, non sarei stato così tanto consapevole dell’importanza della famiglia. Avrei date per scontate troppe cose che scontate non sono. Quando a volte mi perdo, o perdo di vista ciò che veramente conta, allora io ricordo il momento della mia rinascita. E sono di nuovo lì, liberato da poche ore dai miei sequestratori, sul lettone dei miei, con mio padre e mio fratello Santo, ad aspettare in silenzio che sorga il sole”.
In una famiglia il taciuto forse è più importante di ciò che ci si dice. All’interno della famiglia Diano, in cui tutti sono stati colpiti allo stesso modo dal sequestro di uno dei suoi componenti, non si è più parlato di quel buco nero che un giorno d’estate inghiottì il piccolo Vincenzo.
“Meritavamo tutti di dimenticare e di andare avanti. La mia famiglia produce ferro e cemento per costruzioni. Anche il male che gli altri ci fanno funziona come il cemento. Esso è un collante che unisce ancora di più i membri di una famiglia, o le persone che si amano. Io so che il mio dolore è stato nulla in confronto all’angoscia provata dai miei genitori e dai miei fratelli in quei 72 giorni. Il non sapere uccide”, afferma Vincenzo.
Ora anche lui è papà. Suo figlio ha più o meno l’età che aveva egli stesso allorché fu rapito. “Quando guardo mio figlio rivedo quel bambino che ero, e solo in quel momento mi rendo conto di quanto fossi piccolo allora. C’è una domanda ancora dentro di me alla quale non potrò mai dare una risposta: come si può fare questo ad un bambino?”.
Neanche noi sappiamo rispondere. Forse non sanno rispondere neanche i sequestratori di Vincenzo, quegli uomini che lui poi fu costretto ad incontrare in tribunale circa cinque anni dopo. Stavano lì, con il viso chinato, non avevano il coraggio di guardarlo negli occhi. Erano uomini ordinari. È vero: il male è banale.
“I mafiosi si ritengono uomini e, addirittura, uomini d’onore: se c’è qualcuno che invece non è uomo è il mafioso, e se c’è qualcuno che non ha onore è il mafioso”, furono le parole di don Italo Calabrò nel corso di un’omelia tenuta il 2 agosto del 1984 a Lazzaro. Vincenzo, un bambino costretto a cresce troppo in fretta, diede loro una lezione di dignità, che forse non saranno mai capaci di apprendere.